di Gian Gabriele Cau

Nel maggio dello scorso anno, dopo una distrazione protrattasi per quasi ottant’anni, a seguito di reiterati e sofferti solleciti, su iniziativa dello scrivente sono stati finalmente restituiti alla chiesa dei SS. Cosma e Damiano di Ozieri due olii su tela del primo Seicento: le Marie al sepolcro e il Cristo compianto dalla Vergine, per i quali si è proposta l’attribuzione all’esule fiorentino Baccio Gorini, attivo nel Nord Sardegna tra il 1588 e il 1628 anno della sua morte (cfr. G. G. Cau, Ozieri. Dalla chiesa dei SS. Cosma e Damiano due inediti di Baccio Gorini. Il Cristo compianto dalla Vergine e “Le Marie”, «Voce del Logudoro», Ozieri 18 marzo 2007, pp. 1, 3).
Si riprende oggi l’argomento per illustrare l’esito di recentissimi studi che gettano nuova luce sulla vicenda storico-artistica delle Marie al sepolcro (cm 97 x 68), dei due il soggetto di più elevato pregio artistico e il più aderente alla maniera del Gorini. La tela dei Cappuccini è copia, con marginali personali riprese, dell’analogo olio su tela (cm 81 x 66) confluito nel 1851, come legato del conte Carlo Marenzi, nella raccolta della Pinacoteca dell’Accademia Carrara di Bergamo (inv. 1235 (1085), uno dei più significativi musei di arte italiana antica, fondato dal conte Giacomo Carrara con un generoso lascito alla città alla fine del Settecento, e della quale lo stesso Marenzi per volontà del Carrara era stato più volte presidente.
 
 
 
 
 
Le tre Marie al sepolcro attr. a Baccio Gorini (Ozieri, chiesa dei SS. Cosma e Damiano); Le tre Marie al sepolcro di Pieter de Witte

La vicenda critica dell’originale è tortuosa e contrastata. In bibliografia l’opera esordisce con l’attribuzione, forse per una campanilistica tradizione locale, al bergamasco Enea Salmeggia (1565 ca.-1626), le cui opere, ha scritto Vittorio Sgarbi, «sono testimonianze di una profonda fedeltà ai modelli culturali e spaziali del Cinquecento», con particolare riferimento a Lotto, Luini e Moroni. Per Franco Russoli, intervenuto nel dibattito con un improbabile contributo del 1967 (cfr. F. Russoli, Accademia Carrara. Galleria di belle arti in Bergamo. Catalogo ufficiale, Bergamo 1967), la tela sarebbe copia di un originale del fiammingo Pieter de Kempeneer detto Pedro de Campaña (1503-1580 ca.), originario delle Fiandre ma attivo anche in Spagna e in Italia. Di parere divergente Filippo Rossi per il quale l’opera andrebbe ricondotta ad un anonimo spagnolo del xvi secolo (cfr. F. Rossi, Accademia Carrara Bergamo: Catalogo dei Dipinti, Bergamo 1979).
 

Tra tutte per l’autorevolezza della fonte, sostenuta dell’inedita convergenza di talune coordinate di spazio e di tempo tra copia e originale, di cui si dirà nel corso della trattazione si privilegia la proposta avanzata da Federico Zeri nel 1981, che lo vuole del fiammingo Pieter de Witte detto anche Pieter Candid, italianizzato in Pietro Candido. L’opera è censita nell’archivio fotografico della Fondazione Zeri di Bologna (la più consistente raccolta privata al mondo di immagini di arte italiana), in due schede: la n. 83699 e la n. 83700 (cfr. busta intestata ‘Pittura italiana’ sec. xvi, Firenze 12, fascicolo n. 5), con approssimativa cronologia, indicata tra il 1570, anno della più antica attestazione del Candido a Firenze, e il 1628 anno della sua scomparsa a Monaco. In alternativa, ipotesi che escluderebbe almeno in parte il ruolo del Candido, si propone nella stessa scheda il periodo 1550-1599. Con una nota autografa sul verso della foto 83699, lo Zeri ricorda di avere conosciuto un’altra versione del dipinto sul mercato milanese, della quale si ignora il destino.

Pietro Candido è un valente pittore, arazziere e scultore fiammingo, attivo tra Firenze, Volterra e Monaco, dove seppe conquistare una posizione di assoluto rilievo tra gli artisti al servizio dei duchi di Baviera. Un tempo maggiormente noto e gradito alla critica, è stato per lungo tempo trascurato, forse anche per le gravi devastazioni, nel corso della seconda guerra mondiale, della più parte delle tele a lui commissionate per i soffitti della Residenz di Monaco. Nato a Bruges intorno al 1548, a circa dieci anni Pietro, nel 1570,segue a Firenze il padre Pietro di Elia, scultore e arazziere ‘minuto’, chiamato a lavorare nell’opificio voluto dal duca Cosimo I de’ Medici. Poco si sa della sua giovinezza e della sua formazione fiorentina, quando verosimilmente conduce il suo apprendistato sotto la protezione dello scultore Giambologna. Dopo che il genitore ebbe lasciato la città, fra il 1568 e il 1571, alla scadenza del contratto decennale che lo legava ai Medici, Pietro rimase probabilmente a Firenze con i fratelli Elia, scultore morto nel 1574, e Cornelio, guardia personale del duca ma anche apprezzato pittore di paesaggi. Immatricolatosi all’Accademia delle Arti del Disegno nel 1576 divenne Accademico nel 1583 e collaborò, come il Sustri e lo Stradano sui compatrioti, nella bottega del Vasari per l’affresco della cupola della Duomo di Firenze.
 
Dopo la maturazione artistica del periodo fiorentino, Pietro è attestato dal 1578 a Volterra, città in cui è chiamato a dare l’avvio al rinnovo pittorico della cattedrale, dove ha lasciato tre grandi pale d’altare di capitale importanza che rappresentano, di fatto, le sole opere del periodo italiano a lui riferibili con certezza. Tra queste è Volterra presentata alla Vergine dai Santi protettori del 1578, nella cattedrale; seguiranno a distanza di alcuni anni l’Adorazione dei pastori e il Compianto su Cristo morto, il suo capolavoro, databili rispettivamente agli anni 1580 e 1585 circa,  oggi nella Pinacoteca Civica di Volterra. NelCompianto il fiammingo dimostra ormai di avere conseguito piena maturità stilistica, autonomia e originalità creativa, rifacendosi alle fonti stesse dell’arte fiorentina, ed accogliendo spunti già ‘controriformati’ in una composizione ricca di suggestione patetica, pur all’interno di un colorismo acceso e surreale. Nel 1585 riceve la commissione della lunetta con la Madonna col Bambino fra i Santi Niccolò e Girolamo nell’oratorio fiorentino di San Niccolò del Ceppo, e, fra il 1585 e il 1586, esegue il Ritratto di Giuliano de’ Medici duca di Nemours per la Serie Aulica nel primo corridoio degli Uffizi. L’esperienza fiorentina si conclude nel 1586 quando Pietro si pone, versatile e prolifico artista di corte, al servizio dei Wittelsbach a Monaco di Baviera, dove muore nel 1628 dopo avere realizzato la sua opera di maggiore impegno, la gigantesca pala con l’Assunzione della Vergine già sull’altare maggiore della Frauenkirche di Monaco. 
Il soggetto delle Marie al sepolcro ebbe una certa diffusione per il tramite di una incisione di uno dei membri della celebre dinastia dei Sadeler, tratta da un disegno dello stesso Candido e ripresa, a sua volta, in un disegno datato tra il 1670 e il 1685 da Costantino Zane, nel quale la Maria di Magdala è sola al sepolcro. La stretta corrispondenza iconografica tra il dipinto attribuito al Gorini e l’originale assegnato al Candido, con la rappresentazione delle tre Marie, presuppone un apprendimento diretto, cronologicamente circoscritto in uno stretto periodo compreso tra il 1576 circa, anno in Pietro si iscrive all’Accademia del Disegno a Firenze e il 1588 quando Baccio, secondo quanto rilevato dal canonico Giovanni Spano, è a Cargeghe, dove firma la Sacra famiglia (Cargeghe, chiesa di S. Quirico), e pone a fuoco taluni aggiornamenti, tendenze e umori culturali raccolti dal Gorini nella stessa Firenze, prima dell’esilio in Sardegna.
 
Nella tela della chiesa dei cappuccini la Maddalena manca dell’attributo del vaso di unguento posto sulla sponda del sepolcro ma recupera una centralità, e una presenza scenica che la fanno protagonista. Sullo sgomento immediato per il mancato rinvenimento della salma prevale l’estasi mistica, trasmessa da un volto luminoso e radiante per la rassicurazione dell’amatissimo «Rabbuni». Nello sfondo è lo stessa lontana e cupa Gerusalemme, rappresentata da una torre. Di suo il Gorini, ispirato al Vangelo di Giovanni, inserisce, con valore didascalico, l’epigrafe sul sepolcro «[Quia] tulerunt Dominum meum», che riferisce le ragioni del suo patire alla domanda voltagli dall’angelo nel sepolcro.
 
Pienamente rivalutato dalla critica in tempi recenti, il fiammingo è attualmente al centro di una grande mostra ‘Pieter de Witte – Pietro Candido. Un pittore del Cinquecento tra Volterra e Monaco’  allestita nella stessa Volterra dal 30 maggio all’8 novembre 2009 nelle sale di Palazzo dei Priori, il più antico palazzo comunale della Toscana, sotto l’alto patronato del Presidente della Repubblica. L’esposizione si articola in tre ampie sezioni che danno conto della produzione artistica di Pietro Candido lungo tutto l’arco della sua vita. Presenta al visitatore opere sue e di artisti a lui contemporanei, riferibili ai tre più importanti luoghi dove ha operato, da Firenze, Volterra e Monaco. La mostra è un’occasione scientifica unica per ricomporre le tappe salienti dell’intera produzione, con opere preziose e altamente significative e di intensa e forte suggestione visiva, provenienti da musei di tutta Europa e dalla stessa Residenz.
 
L’articolo è stato pubblicato su «Voce del Logudoro», Ozieri, 6 settembre 2009.