di Gian Gabriele Cau
In un saggio su Bisarcio e la sua diocesi nella storia e nell’arte del 1941, il canonico Giovanni Battista Demelas, allora cappellano dell’Ospedale Civile di Ozieri, con malcelato rimpianto scriveva: “Appesi, da antica data, alla parete della sacristia della chiesa dell’ex convento dei Cappuccini di Ozieri, esistevano, gelosamente custoditi, due quadri di un certo valore artistico, eseguiti con mano maestra, da un pittore sardo del secolo xvii. Il primo quadro riproduceva Gesù esangue, pesantemente abbandonato in grembo alla «Mater dolorosa» e nel secondo vi era dipinto, con finezza d’arte e naturale espressione di dolore, le tre Marie, assise attorno alla tomba già vuota di Gesù Risorto. I due quadri, ritirati per essere restaurati, – concludeva lo studioso – sono attualmente esposti, in una sala del museo archeologico Gio. Ant. Sanna di Sassari”.
La notizia della presa in carico dalla Soprintendenza Archeologica di Sassari trova conferma nelle pagine dell’odierno catalogo della pinacoteca dello stesso ente: “Nel 1933 vennero trasferiti al Museo, per essere avviati al restauro, i due Retabli della chiesa della SS. Trinità di Saccargia. L’anno successivo, forse per gli stessi motivi di tutela e restauro, furono prelevati anche due quadri provenienti dall’Ospedale Civile di Ozieri” (G. Dore, 2000).
Dalla rilettura della testimonianza del Demelas e dalla conferma che le tele ozieresi non fossero state disperse, nacque, nel lontano febbraio 2003, il desiderio di un approfondimento e di un legittimo, auspicabile recupero al patrimonio artistico della Chiesa ozierese, nel quale ancora si crede, nell’imminenza dell’apertura del Museo Diocesano.
Dal 1966 al 1973 il museo fu chiuso per lavori di ampliamento e ristrutturazione; alla sua riapertura la sezione della pinacoteca fu ridimensionata a sole 50 opere esposte. Le rimanenti, comprese le due in esame, furono allocate nella quadreria-deposito del Museo Sanna. Nel tabulato dell’inventario della pinacoteca le due tele compaiono col titolo di Cristo compianto dalla Vergine (n. inv. 19055, olio su tela, cm 95 x 69) e Le Marie (n. inv. 19054, olio su tela, cm 97 x 68), senza una precisa attribuzione e con un insignificante punto interrogativo alla casella “cronologia”.
I due dipinti sono in buono stato di conservazione, per quanto si rilevino talune cadute della crosta pittorica reintegrate nel corso, forse, di più di un restauro. Per la vicinanza tematica dei soggetti e per le dimensioni pressoché identiche dei supporti, si sarebbe tentati – con prudenza – a prendere in considerazione l’ipotesi probabile che queste possano derivare da uno stesso polittico, forse intitolato ai Sette Dolori di Maria. Una continuità iconografico-narrativa tra i due dipinti è sostenuta da quel telo con il quale era stato calato il Cristo dalla croce (alle spalle di Maria nel Compianto), lo stesso trattenuto dalla Maddalena, muto testimone della sua presenza sul Calvario.
Il ciclo iconografico della Mater Dolorosa, assai raro in area italiana, conta un solo precedente in Sardegna nello smembrato, omonimo retablo di Pietro Cavaro (post 1520), eseguito anche questo, forse non a caso, per un convento francescano, quello cagliaritano di S. Maria di Gesù. Nella sagrestia della chiesa ozierese dei SS. Cosma e Damiano si conserva una tela triangolare, verosimilmente una cimasa, raffigurante un’Andata al Calvario (cm 120 x 445 circa). Per quanto tematicamente compatibile con un ipotetico Retablo dei Sette Dolori, si è propensi a scartare l’ipotesi di una appartenenza a questo polittico, perché non conciliabile con la dimensioni delle due tele e ad associarlo ad un presunto Retablo della Passione di Cristo, anche questo smembrato e in massima parte disperso. La scomparsa delle restanti tele sarebbe successiva al terzo decennio del xviii secolo, allorché si rinnovarono gli arredi delle tre cappelle laterali. Nella coincidenza della larghezza di queste (tra i cm 440 e i 460 cm) con la misura della cimasa superstite trova riscontro l’ipotesi di una pertinenza ad un polittico in una di quelle allogato, e si rafforza l’assunto che altri polittici, tra i quali quello dei Sette Dolori, possano, secondo il gusto dell’epoca, avere arredato gli altari minori della stessa chiesa dei cappuccini.
L’ipotetico retablo presupporrebbe una architettura classicheggiante, sul modello coevo del Retablo di N. S. di Tergu e del Retablo di S. Croce di Florinas, attribuito all’esule fiorentino Baccio Gorini e bottega, documentato tra il 1588 e il 1633 Codrongianos. Ed è a questo pittore, sardo di adozione, che – si cercherà di spiegare su quali basi si fonda questa affermazione – si deve restituire la paternità artistica delle due tele della chiesa dei cappuccini.
Nelle opere in esame si denota la stessa “consistenza quasi porcellanosa della sottile stesura del pigmento e la sostenuta qualità della gamma”, riscontrabile nella Sacra Famiglia di Cargeghe” del Gorini. I dipinti, per dirla con un’espressione di Maria Grazia Scano, si inseriscono a pieno titolo in “quella corrente tardomanierista di pittura devota, che si giova della chiarezza dell’informazione e della semplicità del racconto per far appello ai buoni sentimenti e interpretare programmi di rinnovamento didattico-devozionale della religiosità cattolica”. In questo senso va letto quel gusto particolare, quasi fumettistico si oserebbe dire, di integrare i quadri con citazioni bibliche, per favorire una più facile lettura e comprensione anche allo spettatore più distratto. Dal Cantico dei Cantici di Salomone è tratta l’espressione “Ego dormio, et cor meum vigilat”, che compare sull’orlo della coperta del Bambino dormiente nella Sacra Famiglia; così, dal Vangelo di Giovanni, deriva quel “[Quia] tulerunt Dominum meum” sul sepolcro del Cristo Risorto ne Le Marie, che riferisce il patimento di una Maddalena irradiata da un nimbo che la fa protagonista della scena. I tipi fisionomici sono propri degli elaborati dal pittore fiorentino. Tuttavia il consueto piglio dolce, sereno e rasserenatore del volto di molte altre sue raffigurazioni della Vergine è, nel Compianto, segnato da un tratto più duro, da un’espressione accigliata, sofferente e pietosa di una Madre che sostiene il corpo esanime dell’Unigenito Figlio. I toni non sono più quelli caldi e morbidi delle atmosfere vellutate di molte sue opere, ma quelli lividi e freddi di una immane tragedia appena compiuta.
La particolarissima maniera con cui si inflette la visiera del manto della Mater Dolorosa nel Compianto e della figura centrale delle Marie, rimanda direttamente a quella della Vergine della Sacra Famiglia, della Madonna della Misericordia, della Maddalena che sostiene Maria nell’Andata al Calvario del Retablo di S. Croce e di due delle figure femminili nel Compianto sul Cristo morto di Codrongianos tutte opere autografe, attribuite o attribuibili a Baccio Gorini. Anche il manto di un tono azzurro listato da righe d’oro dell’Addolorata del Compianto rimanda a quello raffigurato dall’esule fiorentino nella Vergine della Madonna della Misericordia e della Sacra Famiglia. Direttamente da quest’ultima dipende il particolarissimo disegno del ripiegamento del polsino della Vergine, lo stesso che si rileva anche nel Cristo e nella figura dell’Angelo vestito di un rosa cangiante alla Sua sinistra nella Visione di S. Ignazio alla Storta (Sassari, chiesa di S. Giuseppe), per le quali peculiarità si sarebbe tentati ad una attribuzione allo stesso Gorini.
Alle spalle di Maria è una croce con quattro chiodi nell’intersezione del patibolo con la traversa, secondo un preciso modello riscontrabile nella croce dell’Andata al Calvario e nella Crocifissione dello stesso Retablo di Florinas, e nel Compianto sul Cristo morto di Codrongianus. La raggiera del nimbo del Cristo ricalca quella del Bambino dormiente della Sacra Famiglia, mentre la fisionomia del Salvatore, particolarmente nella barba rossiccia segnata come da un tratto più scuro sul mento, riecheggia quella della Flagellazione del polittico di S. Croce. Per ultimo, il volto tendenzialmente squadrato della Maddalena nella tela de Le Marie rimanda a quello di S. Tecla dell’omonimo Retablo di Nulvi e, più esplicitamente, a quello, con uguale scriminatura centrale, del S. Giovanni del Compianto sul Cristo morto di Codrongianus; mentre la veste di un luminoso tono rosa-giallo cangiante è quella dello stesso soggetto della Crocifissione dell’omonimo retablo.
Sulla determinante congiunzione, nel Cristo compianto dalla Vergine, dei tipi fisionomici, della particolare inflessione della visiera del manto azzurro della Madonna, listato da più righe dorate, e dei quattro chiodi infissi nell’intersezione dei pali della croce – tutti elementi che costituiscono precise cifre stilistiche del maestro fiorentino – si fonda l’attribuzione di questa e maggiormente, per i toni caldi e cangianti della veste della Maddalena, dell’altra tela al fiorentino Baccio Gorini.
Nel corso di questo indagine si è avuto modo di osservare con maggiore attenzione le tre grandi tele settecentesche – una Vergine con Bambino tra S. Sebastiano e S. Francesco d’Assisi, La Vergine e S. Felice di Cantalice e, infine, l’Immacolata – che arredano la chiesa dei SS. Cosma e Damiano, nelle coeve, notevoli cornici di bottega sarda. Nella prima è riferito l’inedito cartiglio “este quadro lo ha mandado hazer noble don[n]a Maria Angela Tedde Delitala, y Nob[le] Don Ivan M[ari]a Satta Siny de esta villa mdccxxx Ocier”. Nella seconda è il ritratto del giovanissimo committente (il più antico ritratto di un ozierese) e lo stemma della nobile famiglia dei De L’Arca, di cui si è scritto di recente su questo giornale, che avrebbero donato il terreno su cui fu eretta la chiesa dei due santi anagirici.
L'articolo è stato pubblicato sul giornalie diocesano "Voce del Logudoro", Ozieri, 18 marzo 2007, p. 3.