di Gian Gabriele Cau
A lenire il dolore per l’incendio devastante che nel gennaio 2005 mandò in fumo antichi arredi nella Cattedrale dell’Immacolata di Ozieri, giungono oggi, inattese, talune architetture, occultate dagli intonaci o sepolte dalla pavimentazione ottocentesca. Nella parete Est del transetto della chiesa madre sono emersi tre splendidi archi, in buono stato di conservazione, che davano accesso ad altrettante cappelle abbattute a metà del sec. XIX secolo, quando il duomo fu convertito dalle cinquecentesche forme gotiche a quelle neoclassiche, ridisegnate dall’architetto Gaetano Cima. Taluni conci appartenuti alle nervature di una volta a vela e riutilizzati per l’accecamento degli archi in esame, dichiarano l’antica esistenza di una cappella o più cappelle oltre quelle arcate. L’impostazione del primo arco a sinistra (mentre scrivo il solo rimesso interamente in luce) è quella canonica dell’architettura gotico-aragonese: un arco ad ogiva sorretto da semipilastri, dalle cui basi partono modanature a toro e gola di differenti sezioni, che si interrompono all’altezza dei capitelli per poi proseguire nell’archivolto. Il modell che emerge non è differente da quello dell'abitazione cinquecentesca preso la Fontana Grixoni, anche questa rivelatasi di recente, per la caduta dei vecchi intonaci.
I due capitelli sono scanditi da un modulo replicato cinque volte (tre visibili) su tutta la fascia. In ogni unità è rappresentato un motivo fitomorfo, consistente in un breve fusto da cui si dipartono, in simmetria (una per lato), due foglie polilobate, riecheggianti, in maniera stilizzata, quelle della roverella. Nel marcato disegno perimetrale e nella nervatura si coglie un vago rimando a quello di talune formelle della volta della cripta del duomo di Cagliari. L’interesse non è minore per il contestuale rinvenimento di una pietra sepolcrale seicentesca, appartenuta alla nobile famiglia ozierese dei De L’Arca (o semplicemente L’Arca). La tomba gentilizia è nella cappella di S. Andrea sulla destra del piccolo presbiterio, simmetrica a quella del vescovo mons. Serafino Carchero, nello spazio sinora occupato dall’organo a canne. L’inatteso rinvenimento è occasione di riflessione sui meriti poco noti di una delle maggiori famiglie patrizie locali, la cui storia si confonde e si sovrappone a quella della stessa villa de Oçier, in cui ebbero dimora per quasi tre secoli.
La lettura della lastra tombale non è semplice per l’usura del materiale lapideo (marmo bianco), a causa dell’assidua frequentazione dei De L’Arca, in concomitanza della celebrazione nella cappella di famiglia di innumerevoli messe in suffragio delle anime dei loro congiunti. Da un attento esame a luce radente emerge, nel riquadro superiore, il rilievo dell’arma del casato, incluso in una cornice barocca, perimetrata da una clessidra alata, motivi fitomorfi e floreali, lunghe ossa incrociate e svolazzi nei lati, e quattro teschi agli angoli. Il pannello inferiore è, invece, piano. Lo stemma gentilizio ritrovato è iconograficamente differente da quello degli stessi De L’Arca, murato sulla parete Ovest del chiostro di S. Francesco. Nell’ex convento l’insegna riporta scolpita - tra le lettere “D F L T” incise agli angoli della lapide, e interpretabili come D[on] F[rancisco] L[’Arca] T[ola] - “la rappresentazione grafica di un edificio articolato su tre piani con altrettanti ordini di finestre, più una loggia superiore; le sue fondamenta poggiano, invece, sulle onde. La raffigurazione indubbiamente simbolica, lascia intendere la funzione salvifica del convento, inteso come arca della salvezza (simbolo di fede e speranza)”, in chiara allusione all’etimo del casato dello stesso don Francisco committente dei lavori di ampliamento del convento francescano nel 1651 (cf. S. Becciu, Architettura religiosa nella diocesi di Bisarcio in età Moderna, si di laurea, Sassari, A.A. 1999-2000).
Nella lastra tombale in esame l’arma è rappresentata da uno scudo troncato. Nel primo campo è raffigurata un’aquila con le ali appena spiegate, probabile omaggio alla Corona di Spagna (in altre raffigurazioni dello stesso stemma l’aquila bicipite sovrasta lo scudo); nel secondo è, sulle onde del mare, l’arca di Noé con doppio spiovente, su cui aleggia una colomba con un ramo d’ulivo nel becco, secondo il racconto biblico. Al colmo è un elmo di tre quarti a destra, tra due pennacchi, giustificato dal fresco riconoscimento - il 25 ottobre 1631 - ad un membro della famiglia, don Francisco, del titolo di Cavaliere di Santiago una delle più alte onorificenze, concessa dello stesso Re di Spagna. Esterna allo scudo, ma ad esso pertinente, nella traversa che partisce la lastra in due sezioni, è la corona con quattro perle (tre visibili) del cavalierato ereditario, ornata da motivi fitomorfi da questa nascenti. Lo stesso schema compare in un terzo stemma della famiglia ozierese, databile al terzo decennio del XVIII secolo raffigurato con il giovane committente (il più antico ritratto di un ozierse) nel quadro di S. Felice di Cantelice della chiesa di. S. Cosma e Damiano.
La prima attestazione documentale del sepolcro rimesso in luce è del 1668, quando Isabella de l’Arca y Rugier, dispone per via testamentaria di essere inumata “en la Iglesia de Santa Maria Virgen Collegiata en la Iglesia [sic] del Santissimo crucifixo donde tengo la losa de marmol (tomba di marmo n.d.s.), en la qual estan enterrados mis hijos”, lasciando, per amore del Signore ed in suffragio della propria anima, due scudi alle chiese di S. Nicola, della Vergine di Loreto, di Madonna di Monserrato, della Vergine delle Grazie e del Carmelo, più un legato di cinquanta lire “al Oratorio de los Gloriosos retirados de San Felipe y San Joseph de la presente villa, […] quales han de servìr por la fabrica del dicho Oratorio y en las cosas mas necessarias...” (Arch. Capit. Ozieri. Testamento di Isabella del’Arca y Ruger, 1668). Con questo strumento la nobildonna lascia la somma di 150 lire per la realizzazione di un affresco, per mano del pittore siciliano Giuseppe Bonacurso nella stessa cappella del SS. Crocifisso, al pari di quello della Presentazione di Maria Bambina al Tempio nell’oratorio del Rosario.
Si deve supporre che lo jus patronatus et sepeliendi fosse stato riconosciuto alla nobile casa ozierese quantomeno dal 1585, quando Juanne de l’Arca nel proprio testamento dispone di essere interrato nella loro (insoro) cappella del Crocifisso della parrocchiale di S. Maria. Il rinvenimento comporta come diretta conseguenza l’esatta localizzazione della omonima cappella seicentesca in quella intitolata oggi a S. Andrea. Dall’inventario della visita pastorale del 1539 si apprende, tuttavia, che una cappella del SS. Crocifisso era in quell’anno nel coro, sotto il patronato di un certo mossen Barcelò. Se si trattasse della stessa cappella, si avrebbe conferma che l’antica chiesa romanica precedente quella gotico aragonese, riconsacrata nel 1571, fosse orientata ad Sud-Est, in corrispondenza dell’attuale transetto.
La consuetudine dell’attribuzione di tali diritti e degli annessi doveri di mantenimento e officiatura delle cappelle si diffuse e trasmise per intere generazioni. Nel 1765 tutte le cappelle della chiesa di S. Maria erano di dominio delle più ricche famiglie della villa: la cappella di San Giovanni ai Delogu, della Madonna della Neve ai Taras, di S. Agata ai Carta, di S. Giacomo ai Pallazzoni, di S. Pietro ai Sotgiu, del SS. Crocifisso ai De L’Arca, di S. Anna ai Taras (F. Amadu, 1993).
La famiglia dei De L’Arca si trasferì dal Regno de Leon (Spagna) a Sassari agli inizi del XVI secolo con un Francesco. Nei decenni immediatamente successivi i discendenti si diramarono ad Alghero e ad Ozieri e furono ammessi allo stamento militare nel 1550, durante il Parlamento Madrigal. Nel 1594 ottennero il riconoscimento della nobiltà con Giovanni nipote di Francesco e i suoi figli formarono diversi rami della famiglia. Un altro Francesco residente a Sassari nel 1609 acquistò dai Ravaned la Baronia di Monti, ma la sua discendenza si estinse nel corso del XVII secolo e il feudo passò in eredità ai Manca.
Ad Ozieri un membro del nobile casato, certo mosse[n] Nicolau de larca nel 1539, in occasione della visita pastorale del vescovo di Alghero Durante dei Duranti, è già patrono di un altare con retablo“sots invocacio dela conceptio de n[ost]ra Sen[y]ora”. Nel 1571 tra i rappresentanti delle più importati famiglie della villa alla cerimonia di riconsacrazione della chiesa di S. Maria, presieduta dal vescovo spagnolo Pietro Frago, sono presenti M° Fran.co de Larca e M° Jagu De Larca. Appena quattro anni più tardi lo stesso Francisco assiste alla consacrazione da parte del vescovo Antioco Nin della chiesa di S. Francesco, nella quale la famiglia ben presto avrebbe ottenuto il patronato della cappella del Beato Salvador, altrimenti detta “capilla de los de l’arca”.
Dagli albori del Seicento i De L’Arca sono schierati con i Tola contro la fazione avversa dei Grixoni e dei Delmestre in una lotta tra famiglie senza esclusione di colpi. Divisi tra spada e croce i De L’Arca non trascurarono impegni civili e religiosi. Nella prima metà del Seicento i De L’Arca- Tola e, nella seconda metà, i Manca-De L’Arca, furono le maggiori benefattrici della chiesa di San Francesco e ai loro primogeniti per devozione al Poverello di Assisi dettero il nome di Francisco. Anche la stessa chiesa dei SS. Cosma e Damiano annessa al convento dei cappuccini, fu edificata su un terreno donato dalla ricca famiglia patrizia e arredato con un quadro di S. Felice di Cantelice, il primo cappuccino ad avere gli onori dell'altare. Il canonico Giovanni Battista Demelas annota l’esistenza di una, oggi dispersa, lapide marmorea murata nel presbiterio della chiesa della Madonna di Monserrato, nella quale comparivano la data 1614 ed i nomi di don Matteo Tola e della moglie Eleonora De L’Arca in memoria di una donazione, forse dello stesso altare ligneo della Patrona della Catalogna (G. Demelas, 1941).
Tra le figure di maggiore rilievo della nobile e ricca famiglia si annovera, in ambito politico, il magnificus Johannes del’Arca y Artea procuratore dell’Incontrada del Monteacuto, il cui patrimonio nel 1634 era stimato in 3407 pecore madri, 1500 agnelli, 257 vacche, 260 maiali 762 capre (si ricorda che nel 1635, don Francesco De L’Arca Tola cavaliere di Santiago fece dono al Duca di Gandìa di un cavallo del valore di cento scudi). Nella cultura si pongono in evidenza due letterati: il gesuita algherese Antioco De L’Arca, autore del componimento teatrale “El saco imaginado” (1659) e Andrea Manca De L’Arca del trattato Agricoltura di Sardegna (1780).
Il saggio è pubblicato in "Premio Biennale Città di Ozieri per cori tradizionali sardi", catalogo della rasssegna canora, Ozieri 2 dicembre 2006, pp. 8-10.