Premio OzieriPremio Ozieri di Letteratura Sarda 

di Gian Gabriele Cau

 

La recente donazione della signora Maria Marinelli al Comune di Ozieri di alcuni quadri in memoria del generale n.h. Giovanni Baroncelli è occasione per alcune riflessioni su di uno tra i tanti dipinti – tutti di altissimo pregio – lasciati in legato alla comunità ozierese (municipio, cattedrale e chiesa di San Francesco) per espressa volontà del nobiluomo in persona. Nel 1974, per il tramite dell’esecutrice testamentaria Maria Marinelli, un olio su tela raffigurante un Ecce Homo fu trasportato dalla residenza romana del generale alla Cattedrale è collocato nell’aula capitolare, a fronte del più noto Retablo di Nostra  Signora di Loreto. Il valore dell’opera apparve subito evidente e, tra i non addetti ai lavori, correva voce che il dipinto sarebbe stato addirittura opera dello spagnolo El Greco (alias Doménikos Theotokópoulos). Per Vittorio Sgarbi interrogato a sorpresa dallo scrivente nel marzo 2001, quando con gesto ginnico si era piombato dal paratore della sacrestia dei canonici sul quale aveva concluso la sua lezione sul Maestro di Ozieri, si trattava di una tela di Scuola spagnola del xvii secolo. Silenzio quasi assoluto in bibliografia, dove si registra un solo intervento, recentissimo (2005), di Wally Paris, per la quale «potrebbe trattarsi di brano sacro larvatamente riecheggiante un tardo manierismo comprendente ascendenze toscane mediate da influssi di carattere internazionale, senza escludere un apporto iberico».

  

Minimo comune denominatore delle più o meno differenti posizioni è il rimando ad un ambito ispanico, intorno al quale circoscrivere un fronte di ricerca. Un esame più attento dell’opera ha rivelato che si tratta di una copia seicentesca, un olio su tela, in scala pressoché reale – sovrapponibile si oserebbe dire per la fedeltà della derivazione - di un Ecce Homo dipinto da Vicente Juan Masip Navarro (Macip, secondo altra grafia) detto Juan de Juanes, uno degli artisti capitali, per quanto poco conosciuto, della Spagna del Cinquecento, nato a Fuente de la Higuera (Valenza) intorno al 1510 e morto a Bocairente nel 1579. La copia originale della tela della cattedrale, un olio su tavola di cm 86,4 x 58,5 cm, databile tra il 1565 è il 1575, è esposta presso il Museo de Bellas Artes di Valenza, dove è confluita a seguito della soppressione del Convento del Pilar, per il quale sembra sia stata concepita. 

Juan de Juanes è il secondo membro di una dinastia di tre generazioni di artisti operanti a Valenza tra Quattrocento e Seicento: il padre omonimo Vicente Juan Masip detto il vecchio (1480 ca. - 1547 ca.), Juan  e i figli di quest’ultimo, Vicente, Margarita e un terzo meno noto. Buona parte dei dipinti più significativi di Masip il vecchio è stata attribuita per lungo tempo al figlio, il quale avendo appreso nella bottega paterna la maniera italiana, riuscì a diffondere tra i fedeli, con enorme successo, l’iconografia del padre, eclissando per molto tempo persino la personalità del genitore. Le sue norme pittoriche moderate e i soggetti di carattere religioso catturarono la devozione pacata della sua epoca traducendosi, ben presto, in una notevole fama e  in incarichi importanti. 

La critica neoclassica lo celebrò come il maggiore pittore spagnolo rinascimentale, talora definendolo, addirittura, il “Raffaello spagnolo” per gli influssi raffaelleschi che si rivelano non solo nella composizione ma nel soave sfumato dei contorni e nel colore. Con il delinearsi della personalità artistica del padre e con la restituzione a questo di alcune tavole prima attribuite al figlio, la sua fama cominciò a sminuire. «L’osservatore odierno – è stato scritto – tende ad apprezzare sempre meno i suoi preziosismi tecnici, la sua predilezione per i toni chiari, il gusto per le minuzie e le sdolcinatezze».

Pur copiando dal padre le soluzioni plastiche e i modelli, segnati dall’impronta di Leonardo da Vinci e di Sebastiano del Piombo, Juan de Juanes è certamente meno efficace e creativo di Masip il vecchio. Ciononostante, alcuni modelli iconografici creati dal più anziano hanno finito per trasformarsi – grazie al contributo del figlio, che li riprende e addolcisce, imitando quanto poté l’opera di Raffaello che conobbe forse in un viaggio a Roma intorno al 1560 –  in vere e proprie icone della fede popolare, in perfetta sintonia con lo spirito della Controriforma. Ne sono perfetti esempi le varie redazioni dell’Ecce Homo, prototipi iconografici basati sulla idealizzazione della divinità del Cristo, del quale sono note due copie, una conservata al Museo del Prado e l’altra al museo di Valenza. Le sue figure del Cristo - da quelle del Salvatore Eucaristico e dell’Ultima Cena, il suo quadro più famoso, a questa dell’Ecce Homo - sono improntate di purezza, di dolcezza luminosa e di serena benignità. Tra di loro, a loro volta, pressoché sovrapponibili, l’Ecce Homo di Madrid si caratterizza per un colore luminoso e vibrante, unito ad un  perfetto equilibrio compositivo, mentre una vena di sottile malinconia distingue la copia del Museo de Bellas Artes. Talune corrispondenze determinanti, quali l’angolazione dei raggi dell’aureola  e il panneggio meno voluminoso e più avvolgente del manto sul braccio sinistro, inducono a ricercare nella tavola valenziana, piuttosto che in quella madrilena, il reale modello della copia ozierese. Opera di un artista di sicuro mestiere, certamente spagnolo, forse valenziano, nel volto più scavato e tirato, e nell’espressione più contrita, l’Ecce Homo della cattedrale denota l’aggiornamento verso un gusto meno incline alle sdolcinatezze del Masip e più prossimo al sofferente misticismo delle figure del Theotokópoulos. Degna di non minore attenzione  è la coeva cornice lignea barocca, in foglia d’oro, che conferisce al dipinto quel grado di monumentalità che gli si addice.

Dopo il ridimensionamento operato da certa parte della critica nel corso del xx secolo, ampio merito è stato riconosciuto al Masip nel 1979, in occasione del quarto centenario della morte, con l’emissione di una serie filatelica di sei soggetti, tra i quali anche l’Ecce Homo di Valenza. Più di recente si è celebrata e rivalutata la sua figura con due importanti esposizioni nel corso dell’ultimo anno giubilare. La prima, Joan de Joanes, una nueva visión del artista y su obra, presso lo stesso  Museo de Bellas Artes de Valencia, giusto tributo della città nella quale aveva avuto bottega; la seconda, Joan de Joanes, un maestro del Renacimient, presso le sale espositive della Fundación Santander Central Hispano a Madrid, nella quale sono confluite oltre ottanta opere disperse in musei e collezioni private di Valenza, Barcellona, Madrid, Stoccolma e anche Firenze (Galleria degli Uffizi). Destinato a riaprire il dibattito sulla reale consistenza del corpus delle opere e, di conseguenza, sull’effettivo valore di Juan de Juanes, è il saggio del direttore del Museo de Bellas Artes don Fernando Benito, pubblicato nel catalogo della mostra madrilena, che lo riabilita da un certo discredito in cui era caduto. Secondo gli ultimi studi talune tavole che si considerarono lavori tardivi di Masip il vecchio sarebbero in realtà creazioni giovanili di Juan de Juanes. Così lentamente, tra autentici colpi di scena, in una insolita oscillazione tra attribuzioni, destituzioni e quindi sorprendenti restituzioni, si va definendo la personalità di questo raffaellesco, al quale non importa convertirsi, all’occasione, in ombra del maestro umbro né di cristallizzarsi su forme e modelli appresi nella bottega paterna.

Non si dispone di alcuna notizia circa gli itinerari che avrebbero portato l’antica tela presso l’abitazione romana del generale Baroncelli. Su base statistica, in eguale misura potrebbe derivare dal ramo paterno toscano, da quello materno ozierese o essere stata acquisita in tempi più recenti dallo stesso generale forse nella Capitale. Senza escludere alcuna delle altre ipotesi, la pista materna appare come la più attendibile per un solido legame storico tra la villa di Ozieri a quelle di Oliva e Gandia residenze dei Centelles e dei Borgia feudatari del Monteacuto, e distanti appena una settantina di chilometri da Valenza, nella quale tre generazioni dei Masip avevano ininterrottamente operato per quasi due secoli. Si ricorda che la sorella del Baroncelli, donna Elisa, era legata al fratello solo per parte di madre, donna Rita Grixoni (il cui ritratto eseguito dall’Altana - detto per inciso – è tra le opere donate dalla Marinelli), mentre il padre era un Tola. Per l’antica frequentazione di quelle famiglie nobili ozieresi di ambienti ispanici, non si esclude che possa essere questo materno un canale privilegiato per il quale l’opera potrebbe essere giunta ad Ozieri già in epoca remota. L'ipotesi è trova maggior sostegno nel fatto che lo stesso Macip fu ingaggiato per decorare la cappella di S. Giorgio presso la cattedrale di Valensia, che fu dei Centelles e dei Borgia, le due famiglie che per secoli governarono i feudi sardi del Monte Acuto, del Marghine e dell'Anglona.

Dopo una esposizione protrattasi per oltre sei lustri nell’aula capitolare (nella quale ha corso il rischio di essere prima incautamente danneggiato da un panno inumidito con un detergente, poi oscurato dal fumo che di recente ha invaso la cattedrale) la tela dell’anonimo seguace del Masip troverà adeguata sistemazione e, si crede, giusta tutela nella sala più rappresentativa del Museo Diocesano di piazza Carlo Alberto, accanto al Retablo di N. S. di Loreto e al Discendimento dalla croce del Maestro di Ozieri.

Il saggio è pubblicato in:

“Voce del Logudoro”, 11 settembre 2005, p. 3.

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