Premio OzieriPremio Ozieri di Letteratura Sarda 

di Gian Gabriele Cau

 

Leggi la Prima Parte.

 

Di sicuro interesse è la postura della gamba destra appena levata e il piede giacente su un’entità vinta, come lo è il leone in spalla al Mariano di Zuri, di cui quasi non resta traccia per la probabile azione di fedeli iconoclasti, e il pugno sinistro chiuso volto al basso, in segno esorcistico di minaccia agli inferi[69]. La calcatio colli rimanda alla nota iconografia del S. Michele che trafigge il drago sotto i suoi piedi, già documentata nel bracciolo della cattedra vescovile del santuario di S. Michele in Monte Gargano della fine dell’XI secolo. Il Mariano-Ercole di Zuri parrebbe qui presentarsi come un Mariano-San Michele, ripetendone in parte gli atteggiamenti, perché schierato con il Principe della Milizia celeste nella lotta al Maligno. Nell’inedito ritratto il sovrano è tra quattro figure, due per parte, contenute nei tre rincassi contigui, di cui la prima a bassorilievo e le altre ad altorilievo, scandite da una cornicetta a losanghe ai margini laterali. Ognuna è vestita di una tunica più o meno lunga che si apre a campana, da cui fuoriescono esili gambette. Nel capovolto si è riconosciuto Lucifero l’angelo caduto, ancora con il braccio sinistro levato e la mano aperta in memoria di una disponibilità ad accogliere lo Spirito ormai lontana. Nel secondo rincasso, filologicamente, è un femmineo San Michele con cappelli lunghi, anche lui come Lucifero privo di ali. Il patrono della chiesa e vincitore del Maligno è a sinistra del presunto Mariano ii, secondo un modello attestato a Dolianova, dove lo stesso giudice, in segno di ossequio e deferenza, si colloca a destra del S. Pantaleo[70]. Nel quarto sono Adamo ed Eva, secondo certa tradizione abbinati a S. Michele perché da lui stesso cacciati dal Paradiso Terrestre, dopo la tentazione dell’angelo ribelle[71].

Ritornando ora ai partiti decorativi interni dell’abside di Zuri, a sinistra di Mariano II, nello stesso mensolone di imposta dell’arco trionfale, si rileva una foglia d’acqua sulla quale giace, supina, una figura femminile, con l’avambraccio destro, il solo superstite seppure lacunoso, sull’addome. Veste una tunica lunga fino ai piedi, appena stretta in vita con pieghe ‘a canne d’organo’ e ampio scollo ‘a barchetta’ che espone la camicia; la manica è ‘a sbuffo’ con avambraccio fasciato. Ha lunghi capelli sulle orecchie e il volto deturpato da una vasta frattura della pietra che ha cancellato la fronte. I rapporti fisionomici sono falsati da un mento di una misura più che doppia del naso e dalla bocca stirata in un improbabile, funesto sorriso. Il suo decesso è confermato da una postura orizzontale e da un secondo ramo della stessa palma interposta tra il suo capo e quello di Mariano, che, associata al momento funebre, allude alla vita eterna[72]. Completa il quadro iconografico una foglia di acànto posta all’altro lato di un presumibile capezzale, forse simbolo di forza, in memoria delle virtù caratteriali della trapassata, ma anche di resurrezione[73]. Per la freschezza del lutto non può che essere la prima, anonima Moglie di Mariano II, figlia di Andreotto Saraceno Caldera[74] e di una sconosciuta, morta, secondo la genealogia sin qui nota, ante 1293[75], termine che deve essere aggiornato quantomeno ante 1291, anno della chiusura della fabbrica di Zuri.

Se nella collocazione e nei pattern distintivi la figura di Mariano rientra nei noti canoni dell’iconografia régia medioevale isolana, d’altro canto mostra più elementi di originalità meritevoli di considerazione. La rappresentazione del sovrano al fianco della consorte defunta non corrisponde solo alla vanità del committente di essere riconosciuto e immortalato, ma include sentimenti di pietas per l’amata, enfatizzati in un quel che appare come un piccolo monumento funerario, che anticipa il bassorilievo del sarcofago della sua nipotina Giovanna[76], la cui figuretta è tra un angelo orante e uno incensante[77]. Vano il tentativo di un raffronto in termini fisionomici tra il Mariano di Zuri e il Mariano di Dolianova. Per quella tendenza di matrice bizantina alla rappresentazione dell’uomo destinato al governo della res pubblica per il tramite dei simboli dell’imperium, lo scettro, la corona e la sfera[78], a prescindere dal realismo dei tratti somatici, si potrebbe dubitare che possa trattarsi dello stesso soggetto, se non fosse per le conferme epigrafiche a cui è consegnata la memoria documentale del giudice committente a Dolianova e a Zuri.

 

Anselmo da Como, Mariano II de Bas-Serra giudice di Arborea e sua moglie N. Saraceno Caldera, 1291, trachite, altorilievo, Zuri chiesa di S. Pietro, particolare del fregio di facciata.

 

Vaghe corrispondenze o, quantomeno, delle compatibilità fisionomiche si intuiscono, invece, tra il volto rotondo e pieno, con orecchie piccole e alte, del Mariano II di Siddi e quello di un altro suo inedito ritratto nella facciata del S. Pietro di Zuri. Sono, infatti, di Mariano II e N. Saraceno Caldera i ritratti di due mezze figure, una maschile e una femminile, sulla parasta d’angolo destra del portale principale, nella mensola di imposta della terza arcata del prospetto di facciata. I tratti somatici corrispondono agli stessi di lei defunta del cennato rilievo absidale: fronte molto bassa, naso minuto e mento esageratamente pronunciato. Veste una semplice tunica stretta al petto, con scollo circolare bordato da una doppia marcatura e ha in testa un velo che trattiene un cappellino, che ne ingentilisce il volto. Il cranio del sovrano, devastato al punto da rendere pressoché impossibile l’analisi fisionomica, mostra la parte superiore completamente piana come calzata da un copricapo a basso cilindro, che può essere una corona stilizzata. Ha collo taurino, volto forse imberbe e padiglioni auricolari ben segnati a rilievo. Difetta dello scettro, forse cancellato, semmai vi è stato, da una vasta lacuna che investe la mano destra e parte dell’addome, sul quale convergono le braccia, nella stessa postura del suo ritratto absidale. Indossa una tunica stretta da una vistosa cintura simbolo di fedeltà coniugale[79] come, si indovina, possa essere quella del ritratto absidale, intuibile per l’evidente strozzatura del giro vita.

La doppia figurazione del giudice committente ha numerosi precedenti nel Mariano IV del S. Serafino di Ghilarza, nello stesso Mariano II di Dolianova, dove una è a sinistra del prospetto principale, in uno spazio architettonico simmetricamente opposto ma di pari prestigio di questa parasta d’angolo e a Bisarcio, dove, come in questo caso, il capo di Barisone II è sul presbiterio e in facciata. Il ritratto esterno, nella fattispecie di Zuri, non pare la vanitosa replica di quello absidale. Alla rappresentazione in posizione eretta, non consegue, ipso facto, che Mariano e consorte fossero in vita quando Anselmo li ritraeva. Tutt’altro: le foglie da cui sorgono i due personaggi e le foglie di acànto alludono ad una condizione extratemporale, ad una elevazione nella gloria del Signore[80], non di meno dei motivi fitomorfici dello sfondo che prefigurano un Giardino dell’Eden.

 

Anselmo da Como, a sx: Giovanni o Chiano de Bas-Serra, a dx: Giacomina della Gherardesca, 1291, trachite, altorilievo, Zuri, chiesa di S. Pietro, mensola del catino absidale.

 

Dal matrimonio tra Mariano II e la Saraceno Caldera nacque un solo maschio, Giovanni o Chiano, donnicello del regno di Arborea in quel 1291 e judike de iure dalla morte del padre, nel 1297, fino alla sua prematura uccisione tra il 1304 e il 1307, in occasione di una sommossa popolare[81]. Esclusa qualsiasi altra ipotesi, per rilievo architettonico accordatogli a destra di Mariano, si ha ragione di riconoscerlo nel giovane imberbe, monco di entrambe le braccia (del destro, in antico, è stato tracciato il profilo con una tinta di un tono rosso brunito), rappresentato a mezza figura, ad altorilievo, sulla prima mensola del tamburo absidale di Zuri. Indossa una abbondante sottotunica aperta anteriormente, ha cappelli ‘a zazzera’ con una corta frangetta sulla fronte, naso e orecchie minuti e occhi che concordano con il sorriso, come può esserlo quello di un giovane pasciuto, coniugato dal 1287 con la pisana Giacomina della Gherardesca[82] figlia di Ildebrandesca Pannocchieschi e del celeberrimo Ugolino della Gherardesca conte di Donoratico, capitano del popolo della Repubblica di Pisa, vicario di Enzo re di Sardegna, signore della Terza parte del Cagliaritano (Sesta dal 1282), fondatore di Villa di Chiesa (Iglesias)[83], consegnato all’immortalità letteraria dell’Inferno di Dante[84].

Nella mensola seguente, forse rimaneggiata per sospetti danni a seguito del cedimento absidale, è rappresentata a altorilievo la stessa Giacomina della Gherardesca forse accovacciata, più che seduta, corpulenta e stretta in un ampio sottano. Ha lunghe e massicce trecce che calano sulle spalle, la mano destra al petto e la sinistra appena più in basso. Nella terza mensola sono due singolari leoni oranti e addossati, che richiamano quelli rampanti e affrontati sul prospetto principale dell’ex cattedrale di S. Pantaleo di Dolia, esito della stessa committenza. Hanno criniera con ciocche a fiamma e una plastica assai distante dall’altorilievo, certamente di Anselmo, delle stesse fiere del capitello della settima lesena del prospetto orientale. Scartata l’ipotesi di una valenza araldica, di un «simbolo dell’autorità»[85], di una inedita insegna di uso strettamente personale di Mariano II, in quanto estranea alla bandiera dell’Arborea, si ha ragione di crede che si tratti di una teofania dell’apocalittico Cristo Leone della tribù di Giuda[86].

La perdita della quarta mensola è stata risarcita con una aniconica, ben prima dell’anastilosi del 1925. Per la compatibilità delle dimensioni, per la pari lesione da crollo sul capo e sul braccio destro, e per il precedente riscontrato nel prospetto nord della cattedrale di Dolia (anche qui il vescovo affianca il giudice), si sospetta – se ne è fatto cenno in precedenza – che possa essere questa l’originaria collocazione del rilievo del Giovanni vescovo di Santa Giusta oggi sul campanile. Se accolta, l’ipotesi costituisce un nuovo termine per stabilire una probabile cronologia dell’edificazione del campanile, in coincidenza con la ricostruzione dell’abside, ante 1336. Sull’opposto mensolone di imposta dell’arco trionfale, il Tetramorfo marca un confine tra lo spazio privilegiato dei depositari del potere temporale, della teofania e il mondo esterno. Da sinistra a destra sono rappresentati: l’Uomo alato con un nimbo anulare e il Vangelo con il nome di «mathe / us», simile a quello della acquasantiera romanica della chiesa di Santa Vittoria di Sarroch[87], l’Aquila e il Toro decapitati, e per ultimo il Leone. Tutte le creature sono alate e in posizione eretta, antropomorfica. Il Toro mostra gli attributi sessuali, mentre quelli del Leone sarebbero stati scalpellati in antico, forse perché confuso con la lonza (o leonza) emblema della lussuria. La loro rappresentazione assume un significato non differente da quello degli angeli in gesto di «veglia, custodia e riconoscimento», che sovrastano l’immagine di Mariano ii e del Vescovo che gli è accanto a Dolianova[88], del S. Michele che affianca Mariano ii a Siddi, degli Angeli e Profeti su Barisone ii e Costantino ii di Torres e del Bue/Cristo immolato sui Figli di Barisone ii, tutti a Bisarcio, di cui si dirà più avanti.

 

Anselmo da Como, Allegoria dell’albero araldico di Arborea/albero genealogico delle presunte figlie di Mariano II, 1291, trachite, altorilievo, Zuri, chiesa di S. Pietro, capitello della semicolonna presbiteriale destra.

 

Oltre, sul capitello della semicolonna a destra dell’abside, lesionate e parzialmente mutile, sono quattro figure femminili osannanti, con le braccia protese al cielo e le mani aperte ad accogliere lo Spirito e, con esso, la volontà divina. Vestono una tunica molto costruita, stretta in vita, con strascico, manica ‘a sbuffo’ e ampio scollo sulla sottotunica plissettata. Stazionano al riparo, o meglio pendono da un albero deradicato, palese insegna del rennu de Arborée, che sorge tra i due gruppi di donne. Di questo avanzano parte del fusto con la radichetta e alcune fronde interposte tra di loro, che giungono fino a terra con tre sole foglie apicali. Altre fronde sono naturalmente voltate all’alto e si confondono con il capo di ciascuna di esse, anche questo raccordato al ramo da un picciolo, come le foglie viciniori. La strepitosa soluzione plastica, nella quale l’albero araldico di Arborea è anche allegoria del loro stesso albero genealogico, una sorta – si passi la parafrasi – di ‘albero dei natali’, autorizza a credere che, comunque, siano tutte membri della famiglia reale.

L’assunto, già di per sé valido e significante, si carica di una ulteriore valenza semantica per il confondersi delle vicende dell’araldica statale con quelle del casato regnante, in quel determinato momento storico. «Dalle fonti documentarie e dall’iconografia nota sappiamo che» – scrive Francesco Cesare Casula – «da Mariano II a Mariano IV, ovverosia tra la seconda metà del Duecento e la prima metà del Trecento, nel regno superindividuale di Arborea vi erano due insegne araldiche distinte: una dello stato, con albero verde deradicato in campo argento o bianco («vexilla alba hunciam intus pictam arborem viridem que arma ab antiquo sunt arma regno Arboree»)[89]; l’altra della dinastia regnante dei Bas-Serra, di lontana ascendenza catalana. I Bas-Serra, in ricordo di questa origine iberica, innalzavano, appunto, un proprio stendardo formato dal simbolo dello stato sardo da loro governato – l’albero deradicato – con annesse a sinistra o a destra le «armi» dei conti-re di Barcellona («que abent annexa arma regalia»)[90]»[91]. Nel 1339 quando Mariano iv venne nominato dal sovrano di Aragona conte del Goceano, quindi automaticamente suddito-vassallo del re di Sardegna e Corsica, le insegne palate furono poste sopra l’albero deradicato in gesto di personale sottomissione. Viceversa, nel 1352, in periodo di guerra fredda con i Catalano-Aragonesi (appena un anno prima dello scoppio delle ostilità) «un testimone oculare dei famosi «processos contra los Arborea» disse di aver visto nella città giudicale di Bosa le bandiere di Mariano IV che avevano le armi regali sotto l’albero deradicato, in segno di ribellione […]. Infine il 13 ottobre 1353 un quartese, Gomita de Mahins, riferì ai commissari aragonesi inquirenti che in Oristano le insegne giudicali non avevano più alcun segnale regio, ma solo l’albero deradicato statale»[92].

Ora, se lo stesso Mariano II, sotto tutela di Guglielmo di Capraia, per primo adottò lo stendardo bipartito, si ha ragione di credere che, nell’essenzialità dei quattro lunghi rami sguarniti come aste, che scandiscono il perimetro capitellare possa ravvisarsi una allusione ai pali di Aragona, in una compenetrazione inedita, assoluta e geniale di insegne domestiche e statali. Nell’iconografia sin qui nota, inclusa quella di almeno tre graffiti sul paramento esterno della stessa chiesa[93], la chioma dell’albero dell’Arborea, un sorbo (sorbus domestica)[94], volge naturalmente sempre verso l’alto e questo sarebbe stato sufficiente per portare a compimento quel progetto grafico di discendenza parentale immaginato. Difficile, invece, trovare una ragione – che non sia questa proposta – per la forzatura di inusuali fronde spoglie verso il basso di questo che, allo stato degli studi, è la più antica figurazione dell’insegna giudicale arborense, superstite.

Potrebbero essere, queste in esame, le sorelle di Giano, figlie anonime della stessa prima moglie di Mariano, di cui non si conserva altra memoria se non quella che nel 1305, ancora minorenni, sono sotto tutela di Vanni Gualandi[95]. La notizia meriterebbe una verifica e la proposta identificativa avrebbe senso solo se le si considerasse quasi coetanee del fratello, già sposato nel 1287, e almeno in età tardopuberale, come le fanciulle dotate di seno del capitello in quel 1291, salvo ammettere un riadattamento del rilievo con aggiornamento dell’iconografia, in occasione della ristrutturazione dell’abside nel 1336. La loro marginale collocazione è da porre in relazione con la consuetudine che le donne in Sardegna non potessero regnare[96] e perciò confinate in un’area prossima ma comunque esterna a quella privilegiata absidale, riservata al regnante, al donnicello e loro rispettive consorti, presumibilmente al vescovo in carica, alla teofania e al Tetramorfo.

Mariano ii, figura cardine intorno alla quale ruotano i ritratti di Zuri, sedette sul trono di Arborea complessivamente per quasi mezzo secolo, dal 1250 circa al 1264 circa sotto tutela di Guglielmo di Capraia giudice di Arborea per riconoscimento papale; dal 1264 al 1273 come giudice in ‘consorte’ con Nicolò figlio di Guglielmo e in seguito, fino alla sua morte, nel 1297, come giudice unico. Rimasto vedovo sposò in seconde nozze anche lui una Gherardesca, un’anonima figlia di Guelfo della Gherardesca conte dei Donoratico, fratello della nuora Giacomina. Astuto sovrano, godeva di fama di uomo colto, arguto e sottile politico anche oltre Tirreno. Di lui, ricorda Pietro Martini, ne scrive lo storico fiorentino Giovanni Villani in Cronache fiorentine, dalla Torre di Babele al 1336 come «uno dei più possenti cittadini d’Italia tenente a Pisa numerosa corte, e codazzo di cavalieri che seco lui rumoreggiava per quelle vie»[97]. Nel corso di un lungo regno il giudice mecenate portò a compimento importanti opere architettoniche e di riassetto urbanistico della capitale giudicale. Il nome del più effigiato di tutti i giudici di ogni tempo della Sardegna (quattro, forse cinque ritratti), compare, oltre che nelle epigrafi di Zuri e di Dolianova, anche in quelle che a Oristano ricordano la costruzione della Torre e della muraglia della Porta Ponti (1290), della Torre e muraglia di Porta a Mari (1293)[98], abbattuta nel 1907 e, nella Nurra, in quella del Castello di Monteforte, conquistato e restaurato nel 1274[99]. Le iscrizioni delle due porte cittadine, pur nella loro essenzialità, rivelano il carattere di un Mariano credente e con una precisa aspirazione: «q(ui) felix diu [vi]vat et p(ost) obitu(m) i(n) Chr(ist)o q(ui)escat»[100]. Così, col sorriso sulle labbra, come lui e tutta la famiglia si era fatto  ritrarre nei rilievi absidali di Zuri.

Sono dunque queste di Dolianova, Zuri e Siddi le più antichi effigi di sovrani arborensi, sempre riscontrate in chiese romaniche di cui, spesso documentalmente, sono i mecenati. Il fenomeno della rappresentazione del giudice committente trova pari riscontro nel Giudicato di Torres, dove l’attività edilizia régia nei secoli xi e xii fu molto intensa[101]. Nel Capo di Logudoro le figurazioni  dei  primi sovrani, seppure riconducibili a commissioni degli inizi del XII secolo, sono databili al 1250 circa. In quegli anni, regnante Barisone ii, si portava a compimento la decorazione dell’archivolto dell’arcata centrale del porticato della basilica della SS. Trinità di Saccargia (ante 1116 – metà sec. XII).

 

A sx: Costantino I de Lacon-(Gunale) giudice di Torres, a dx: Gonario II de Lacon-(Gunale) giudice di Torres, metà sec. XIII circa, attr. a maestranza di formazione pisano-pistoiese, marmo, bassorilievo, Codrongianus, basilica campestre della SS. Trinità di Saccargia, dettaglio dell’archivolto dell’arcata centrale del porticato.

 

Qui, nel fregio della Caccia al cinghiale, si inseriscono due teste coronate, nelle quali si riconoscono i ritratti dei giudici di Torres Costantino I de Lacon-(Gunale) (ante 1082 – † post 1124 ante 1127)[102] e di suo figlio Gonario II de Lacon-(Gunale) (1110 ca. – † post 1153)[103]. La loro rappresentazione in un contesto di eterno conflitto tra il Bene e il Male è iconologicamente giustificata dell’essere entrambi sostenitori della Chiesa universale nel contrasto al demoniaco, così come lo sono i loro discendenti: Barisone II nel cennato capitello del pilastro presbiteriale nord di Bisarcio, testimone di un episodio salvifico, descritto nel Trionfo di Cristo sul basilisco[104], gli inediti Figli di Barisone ii in prima linea tra mascheroni demoniaci nel capitello già nella bifora destra del portico ancora a  Bisarcio, il Mariano ii di Siddi al fianco del S. Michele che debella Lucifero e il Mariano iv a fronte dell’Agnus Dei che sottomette Lucifero del S. Serafino di Ghilarza, tutti sottostanti ad un arco esplicito richiamo della volta celeste.

Secondo quanto riferito nel Condaghe della solenne consacrazione della chiesa della SS. Trinità di Saccargia[105], Costantino i de Lacon-(Gunale) e la moglie Marcusa de Gunale, a seguito della visione in sogno di Dio e della Vergine Maria, espressero un voto col quale si erano impegnati a costruire un tempio nella vallata di Saccargia, se avessero avuto un figlio o una figlia erede al trono di Torres. Conseguita la grazia, la basilica fu edificata in più fasi: un nucleo originario, identificabile con la cappella absidale sinistra, già eretta nel 1112 quando il monastero di Saccargia fu donato ai camaldolesi, sarebbe stato ampliato e completato in un impianto con transetto triabsidato e un’aula di medie dimensioni entro il primo trentennio del 1100. Una quarantina di anni appresso il nipote Barisone ii avrebbe ultimata la fabbrica nelle forme note, con l’allungamento dell’aula, l’edificazione della torre campanaria e, per ultimo, del portico[106]. È intuitivo che i ritratti del portico siano di Costantino I e del giovane figlio Gonario II, in quegli anni associato al padre nel governo del Giudicato di Torres, ancorché privi di qualsiasi connotazione generazionale, quale la barba, che nei ritratti di Bisarcio distingue Barisone ii dal figlio Costantino II e, a Zuri, Mariano II dal figlio Chiano. La perfetta corrispondenza dei tratti fisionomici dei due volti in esame colloca, infatti, i due sovrani in una dimensione extratemporale, compatibile con lo status esistenziale di Costantino i e di Gonario ii intorno alla metà del XIII secolo. All’epoca della costruzione del portico padre e figlio sono ormai trapassati ma fruitori di una stessa grazia, di cui si volle perpetuare la memoria votiva nella facciata della basilica – è bene ricordarlo – comunque fondata da Costantino e consorte e presumibilmente solo ampliata dal nipote. La rappresentazione di qualsiasi altro giudice, oltre che irrispettosa, avrebbe vanificato il profondo significato di religiosa gratitudine che giustifica l’edificazione del tempio, nel luogo stabilito da Dio e dalla Vergine rivelatisi in sogno a Marcusa.

 

Ex voto di Gonario de Lacon-(Gunale) donnicello di Torres figlio di Costantino I, età tardo romana, rimaneggiata in epoca medioevale, basilica della SS. Trinità di Saccargia, marmo, altorilievo, paramento interno dell’aula, in prossimità del transetto sinistro.

 

Il sapore di un ex voto ha la protome in marmo bianco di un giovinetto, incassata nel paramento interno dell’aula della basilica di Saccargia, in prossimità dell’arco del transetto sinistro, ragionevolmente, in quanto priva di corona, dello stesso Gonario ii donnicello. Non si esclude che possa trattarsi di materiale di spoglio di età tardoromana, derivante da Torres; secondo Fernanda Poli «la lavorazione medievale è comunque patente nella forma della bocca appena socchiusa, di tipo etiope come quelle del grande scultore pisano Biduino»[107]. Lo stesso tratto anatomico si rileva in una seconda figurazione ad altorilievo del capo di Barisone ii de Lacon-(Gunale), che fa coppia con quello, anch’esso inedito, del figlio Costantino II de Lacon-(Gunale) (giudice di Torres dal 1170 ca. – † 1198)[108], nella mensola su cui scaricano gli archi della bifora sinistra del portico di Bisarcio, sotto l’archivolto degli Angeli e Profeti.

 

Barisone II e Costantino II de Lacon-(Gunale) giudici di Torres, ultimo quarto del sec. XII, attr. a maestranza pisana, vulcanite, altorilievo, Ozieri, chiesa campestre di S. Antioco di Bisarcio, mensola di imposta degli archi della bifora sinistra della galilea.

 

Barisone II de Lacon-(Gunale) giudice di Torres, ultimo quarto del sec. XII, attr. a maestranza borgognona, vulcanite, altorilievo, Ozieri, chiesa campestre di S. Antioco di Bisarcio, dettaglio del capitello del pilastro presbiteriale nord.

 

Barisone ha tratti fisionomici meno realistici di quelli della sua stessa effigie del rilievo presbiteriale, ma sufficienti a descrivere un uguale profilo identitario e a stabilire, in quanto rappresentative di uno stesso modello, un confronto tra modo di concepire un ritratto romanico, idealizzato e aulico, e un ritratto più autentico che preannuncia la sconvolgente evoluzione dal romanico al gotico. Il sovrano ha volto ovaloide e in capo una interessante corona a sezione rettangolare, dalla quale emerge frontalmente, con poco slancio e minimo aggetto, una gemma. Seppure poco percepibili per il forte degrado, in questa sono ancora leggibili labili tracce del graffito del profilo stilizzato della torre emblema del Giudicato di Torres, con residua merlatura bifida ghibellina, in aggetto[109]. È la più antica figurazione superstite dello stemma turritano, databile agli anni 1173-90, quando veniva portata a compimento la galilea dell’ex cattedrale bisarchiense[110]. A destra, Costantino è come un giovane dal volto ben levigato e imberbe, cinto di una semplice corona a sezione circolare, simile a quella del Mariano II di Siddi e del Mariano IV del S. Serafino di Ghilarza, per essenzialità accostabile al circulus ferri che anima la Corona Ferrea, forgiata, secondo tradizione, con uno dei chiodi della crocifissione del Cristo e considerata l’immagine stessa del concetto teocratico di «rex gratia Dei»[111].

La corrispondenza dei generi (due maschi e una femmina) e l’originaria pertinenza del capitello alla colonna della bifora destra del portico di S. Antioco[112], inducono all’identificazione, nelle tre figure a mezzobusto tra mostruose entità demoniache, dei ritratti degli altri tre Figli di Barisone ii. Emergono tutte da un giro di palmette allusive alla vittoria e al trionfo sul male, che conferiscono una lieve nota di regalità[113].  La «probabile primogenita» Susanna (post 1153 – †  ante 1186)[114], del cui viso non resta che una labile traccia del perimetro facciale, ha lunghi cappelli, che ricadono anteriormente su di una tunichetta con castigata scollatura sul piccolo seno e maniche più elaborate. Il suo ritratto è tra quelli dei fratelli effigiati anch’essi ad altorilievo, su facce contrapposte del capitello. Ittocorre, documentato nel 1203[115], e Comita[116], giudice di Torres dopo la scomparsa di Costantino tra il 1198 fino alla morte nel 1218, vestono una tunichetta a girocollo e lunghi cappelli con scriminatura centrale, tirati dietro l’orecchio sinistro e cadenti sul destro. Hanno tutti visi quadrangolari con guance paffute e occhi grandi a mandorla con palpebre ben segnate, di cui la superiore appena più estesa, come quelle di Barisone e Costantino.

 

Di sicuro interesse è la postura della gamba destra appena levata e il piede giacente su un’entità vinta, come lo è il leone in spalla al Mariano di Zuri, di cui quasi non resta traccia per la probabile azione di fedeli iconoclasti, e il pugno sinistro chiuso volto al basso, in segno esorcistico di minaccia agli inferi[69]. La calcatio colli rimanda alla nota iconografia del S. Michele che trafigge il drago sotto i suoi piedi, già documentata nel bracciolo della cattedra vescovile del santuario di S. Michele in Monte Gargano della fine dell’XI secolo. Il Mariano-Ercole di Zuri parrebbe qui presentarsi come un Mariano-San Michele, ripetendone in parte gli atteggiamenti, perché schierato con il Principe della Milizia celeste nella lotta al Maligno. Nell’inedito ritratto il sovrano è tra quattro figure, due per parte, contenute nei tre rincassi contigui, di cui la prima a bassorilievo e le altre ad altorilievo, scandite da una cornicetta a losanghe ai margini laterali. Ognuna è vestita di una tunica più o meno lunga che si apre a campana, da cui fuoriescono esili gambette. Nel capovolto si è riconosciuto Lucifero l’angelo caduto, ancora con il braccio sinistro levato e la mano aperta in memoria di una disponibilità ad accogliere lo Spirito ormai lontana. Nel secondo rincasso, filologicamente, è un femmineo San Michele con cappelli lunghi, anche lui come Lucifero privo di ali. Il patrono della chiesa e vincitore del Maligno è a sinistra del presunto Mariano ii, secondo un modello attestato a Dolianova, dove lo stesso giudice, in segno di ossequio e deferenza, si colloca a destra del S. Pantaleo[70]. Nel quarto sono Adamo ed Eva, secondo certa tradizione abbinati a S. Michele perché da lui stesso cacciati dal Paradiso Terrestre, dopo la tentazione dell’angelo ribelle[71].

Ritornando ora ai partiti decorativi interni dell’abside di Zuri, a sinistra di Mariano II, nello stesso mensolone di imposta dell’arco trionfale, si rileva una foglia d’acqua sulla quale giace, supina, una figura femminile, con l’avambraccio destro, il solo superstite seppure lacunoso, sull’addome. Veste una tunica lunga fino ai piedi, appena stretta in vita con pieghe ‘a canne d’organo’ e ampio scollo ‘a barchetta’ che espone la camicia; la manica è ‘a sbuffo’ con avambraccio fasciato. Ha lunghi capelli sulle orecchie e il volto deturpato da una vasta frattura della pietra che ha cancellato la fronte. I rapporti fisionomici sono falsati da un mento di una misura più che doppia del naso e dalla bocca stirata in un improbabile, funesto sorriso. Il suo decesso è confermato da una postura orizzontale e da un secondo ramo della stessa palma interposta tra il suo capo e quello di Mariano, che, associata al momento funebre, allude alla vita eterna[72]. Completa il quadro iconografico una foglia di acànto posta all’altro lato di un presumibile capezzale, forse simbolo di forza, in memoria delle virtù caratteriali della trapassata, ma anche di resurrezione[73]. Per la freschezza del lutto non può che essere la prima, anonima Moglie di Mariano II, figlia di Andreotto Saraceno Caldera[74] e di una sconosciuta, morta, secondo la genealogia sin qui nota, ante 1293[75], termine che deve essere aggiornato quantomeno ante 1291, anno della chiusura della fabbrica di Zuri.

Se nella collocazione e nei pattern distintivi la figura di Mariano rientra nei noti canoni dell’iconografia régia medioevale isolana, d’altro canto mostra più elementi di originalità meritevoli di considerazione. La rappresentazione del sovrano al fianco della consorte defunta non corrisponde solo alla vanità del committente di essere riconosciuto e immortalato, ma include sentimenti di pietas per l’amata, enfatizzati in un quel che appare come un piccolo monumento funerario, che anticipa il bassorilievo del sarcofago della sua nipotina Giovanna[76], la cui figuretta è tra un angelo orante e uno incensante[77]. Vano il tentativo di un raffronto in termini fisionomici tra il Mariano di Zuri e il Mariano di Dolianova. Per quella tendenza di matrice bizantina alla rappresentazione dell’uomo destinato al governo della res pubblica per il tramite dei simboli dell’imperium, lo scettro, la corona e la sfera[78], a prescindere dal realismo dei tratti somatici, si potrebbe dubitare che possa trattarsi dello stesso soggetto, se non fosse per le conferme epigrafiche a cui è consegnata la memoria documentale del giudice committente a Dolianova e a Zuri.

 

Anselmo da Como, Mariano II de Bas-Serra giudice di Arborea e sua moglie N. Saraceno Caldera, 1291, trachite, altorilievo, Zuri chiesa di S. Pietro, particolare del fregio di facciata.

 

Vaghe corrispondenze o, quantomeno, delle compatibilità fisionomiche si intuiscono, invece, tra il volto rotondo e pieno, con orecchie piccole e alte, del Mariano II di Siddi e quello di un altro suo inedito ritratto nella facciata del S. Pietro di Zuri. Sono, infatti, di Mariano II e N. Saraceno Caldera i ritratti di due mezze figure, una maschile e una femminile, sulla parasta d’angolo destra del portale principale, nella mensola di imposta della terza arcata del prospetto di facciata. I tratti somatici corrispondono agli stessi di lei defunta del cennato rilievo absidale: fronte molto bassa, naso minuto e mento esageratamente pronunciato. Veste una semplice tunica stretta al petto, con scollo circolare bordato da una doppia marcatura e ha in testa un velo che trattiene un cappellino, che ne ingentilisce il volto. Il cranio del sovrano, devastato al punto da rendere pressoché impossibile l’analisi fisionomica, mostra la parte superiore completamente piana come calzata da un copricapo a basso cilindro, che può essere una corona stilizzata. Ha collo taurino, volto forse imberbe e padiglioni auricolari ben segnati a rilievo. Difetta dello scettro, forse cancellato, semmai vi è stato, da una vasta lacuna che investe la mano destra e parte dell’addome, sul quale convergono le braccia, nella stessa postura del suo ritratto absidale. Indossa una tunica stretta da una vistosa cintura simbolo di fedeltà coniugale[79] come, si indovina, possa essere quella del ritratto absidale, intuibile per l’evidente strozzatura del giro vita.

La doppia figurazione del giudice committente ha numerosi precedenti nel Mariano IV del S. Serafino di Ghilarza, nello stesso Mariano II di Dolianova, dove una è a sinistra del prospetto principale, in uno spazio architettonico simmetricamente opposto ma di pari prestigio di questa parasta d’angolo e a Bisarcio, dove, come in questo caso, il capo di Barisone II è sul presbiterio e in facciata. Il ritratto esterno, nella fattispecie di Zuri, non pare la vanitosa replica di quello absidale. Alla rappresentazione in posizione eretta, non consegue, ipso facto, che Mariano e consorte fossero in vita quando Anselmo li ritraeva. Tutt’altro: le foglie da cui sorgono i due personaggi e le foglie di acànto alludono ad una condizione extratemporale, ad una elevazione nella gloria del Signore[80], non di meno dei motivi fitomorfici dello sfondo che prefigurano un Giardino dell’Eden.

 

Anselmo da Como, a sx: Giovanni o Chiano de Bas-Serra, a dx: Giacomina della Gherardesca, 1291, trachite, altorilievo, Zuri, chiesa di S. Pietro, mensola del catino absidale.

 

Dal matrimonio tra Mariano II e la Saraceno Caldera nacque un solo maschio, Giovanni o Chiano, donnicello del regno di Arborea in quel 1291 e judike de iure dalla morte del padre, nel 1297, fino alla sua prematura uccisione tra il 1304 e il 1307, in occasione di una sommossa popolare[81]. Esclusa qualsiasi altra ipotesi, per rilievo architettonico accordatogli a destra di Mariano, si ha ragione di riconoscerlo nel giovane imberbe, monco di entrambe le braccia (del destro, in antico, è stato tracciato il profilo con una tinta di un tono rosso brunito), rappresentato a mezza figura, ad altorilievo, sulla prima mensola del tamburo absidale di Zuri. Indossa una abbondante sottotunica aperta anteriormente, ha cappelli ‘a zazzera’ con una corta frangetta sulla fronte, naso e orecchie minuti e occhi che concordano con il sorriso, come può esserlo quello di un giovane pasciuto, coniugato dal 1287 con la pisana Giacomina della Gherardesca[82] figlia di Ildebrandesca Pannocchieschi e del celeberrimo Ugolino della Gherardesca conte di Donoratico, capitano del popolo della Repubblica di Pisa, vicario di Enzo re di Sardegna, signore della Terza parte del Cagliaritano (Sesta dal 1282), fondatore di Villa di Chiesa (Iglesias)[83], consegnato all’immortalità letteraria dell’Inferno di Dante[84].

Nella mensola seguente, forse rimaneggiata per sospetti danni a seguito del cedimento absidale, è rappresentata a altorilievo la stessa Giacomina della Gherardesca forse accovacciata, più che seduta, corpulenta e stretta in un ampio sottano. Ha lunghe e massicce trecce che calano sulle spalle, la mano destra al petto e la sinistra appena più in basso. Nella terza mensola sono due singolari leoni oranti e addossati, che richiamano quelli rampanti e affrontati sul prospetto principale dell’ex cattedrale di S. Pantaleo di Dolia, esito della stessa committenza. Hanno criniera con ciocche a fiamma e una plastica assai distante dall’altorilievo, certamente di Anselmo, delle stesse fiere del capitello della settima lesena del prospetto orientale. Scartata l’ipotesi di una valenza araldica, di un «simbolo dell’autorità»[85], di una inedita insegna di uso strettamente personale di Mariano II, in quanto estranea alla bandiera dell’Arborea, si ha ragione di crede che si tratti di una teofania dell’apocalittico Cristo Leone della tribù di Giuda[86].

La perdita della quarta mensola è stata risarcita con una aniconica, ben prima dell’anastilosi del 1925. Per la compatibilità delle dimensioni, per la pari lesione da crollo sul capo e sul braccio destro, e per il precedente riscontrato nel prospetto nord della cattedrale di Dolia (anche qui il vescovo affianca il giudice), si sospetta – se ne è fatto cenno in precedenza – che possa essere questa l’originaria collocazione del rilievo del Giovanni vescovo di Santa Giusta oggi sul campanile. Se accolta, l’ipotesi costituisce un nuovo termine per stabilire una probabile cronologia dell’edificazione del campanile, in coincidenza con la ricostruzione dell’abside, ante 1336. Sull’opposto mensolone di imposta dell’arco trionfale, il Tetramorfo marca un confine tra lo spazio privilegiato dei depositari del potere temporale, della teofania e il mondo esterno. Da sinistra a destra sono rappresentati: l’Uomo alato con un nimbo anulare e il Vangelo con il nome di «mathe / us», simile a quello della acquasantiera romanica della chiesa di Santa Vittoria di Sarroch[87], l’Aquila e il Toro decapitati, e per ultimo il Leone. Tutte le creature sono alate e in posizione eretta, antropomorfica. Il Toro mostra gli attributi sessuali, mentre quelli del Leone sarebbero stati scalpellati in antico, forse perché confuso con la lonza (o leonza) emblema della lussuria. La loro rappresentazione assume un significato non differente da quello degli angeli in gesto di «veglia, custodia e riconoscimento», che sovrastano l’immagine di Mariano ii e del Vescovo che gli è accanto a Dolianova[88], del S. Michele che affianca Mariano ii a Siddi, degli Angeli e Profeti su Barisone ii e Costantino ii di Torres e del Bue/Cristo immolato sui Figli di Barisone ii, tutti a Bisarcio, di cui si dirà più avanti.

 

Anselmo da Como, Allegoria dell’albero araldico di Arborea/albero genealogico delle presunte figlie di Mariano II, 1291, trachite, altorilievo, Zuri, chiesa di S. Pietro, capitello della semicolonna presbiteriale destra.

 

Oltre, sul capitello della semicolonna a destra dell’abside, lesionate e parzialmente mutile, sono quattro figure femminili osannanti, con le braccia protese al cielo e le mani aperte ad accogliere lo Spirito e, con esso, la volontà divina. Vestono una tunica molto costruita, stretta in vita, con strascico, manica ‘a sbuffo’ e ampio scollo sulla sottotunica plissettata. Stazionano al riparo, o meglio pendono da un albero deradicato, palese insegna del rennu de Arborée, che sorge tra i due gruppi di donne. Di questo avanzano parte del fusto con la radichetta e alcune fronde interposte tra di loro, che giungono fino a terra con tre sole foglie apicali. Altre fronde sono naturalmente voltate all’alto e si confondono con il capo di ciascuna di esse, anche questo raccordato al ramo da un picciolo, come le foglie viciniori. La strepitosa soluzione plastica, nella quale l’albero araldico di Arborea è anche allegoria del loro stesso albero genealogico, una sorta – si passi la parafrasi – di ‘albero dei natali’, autorizza a credere che, comunque, siano tutte membri della famiglia reale.

L’assunto, già di per sé valido e significante, si carica di una ulteriore valenza semantica per il confondersi delle vicende dell’araldica statale con quelle del casato regnante, in quel determinato momento storico. «Dalle fonti documentarie e dall’iconografia nota sappiamo che» – scrive Francesco Cesare Casula – «da Mariano II a Mariano IV, ovverosia tra la seconda metà del Duecento e la prima metà del Trecento, nel regno superindividuale di Arborea vi erano due insegne araldiche distinte: una dello stato, con albero verde deradicato in campo argento o bianco («vexilla alba hunciam intus pictam arborem viridem que arma ab antiquo sunt arma regno Arboree»)[89]; l’altra della dinastia regnante dei Bas-Serra, di lontana ascendenza catalana. I Bas-Serra, in ricordo di questa origine iberica, innalzavano, appunto, un proprio stendardo formato dal simbolo dello stato sardo da loro governato – l’albero deradicato – con annesse a sinistra o a destra le «armi» dei conti-re di Barcellona («que abent annexa arma regalia»)[90]»[91]. Nel 1339 quando Mariano iv venne nominato dal sovrano di Aragona conte del Goceano, quindi automaticamente suddito-vassallo del re di Sardegna e Corsica, le insegne palate furono poste sopra l’albero deradicato in gesto di personale sottomissione. Viceversa, nel 1352, in periodo di guerra fredda con i Catalano-Aragonesi (appena un anno prima dello scoppio delle ostilità) «un testimone oculare dei famosi «processos contra los Arborea» disse di aver visto nella città giudicale di Bosa le bandiere di Mariano IV che avevano le armi regali sotto l’albero deradicato, in segno di ribellione […]. Infine il 13 ottobre 1353 un quartese, Gomita de Mahins, riferì ai commissari aragonesi inquirenti che in Oristano le insegne giudicali non avevano più alcun segnale regio, ma solo l’albero deradicato statale»[92].

Ora, se lo stesso Mariano II, sotto tutela di Guglielmo di Capraia, per primo adottò lo stendardo bipartito, si ha ragione di credere che, nell’essenzialità dei quattro lunghi rami sguarniti come aste, che scandiscono il perimetro capitellare possa ravvisarsi una allusione ai pali di Aragona, in una compenetrazione inedita, assoluta e geniale di insegne domestiche e statali. Nell’iconografia sin qui nota, inclusa quella di almeno tre graffiti sul paramento esterno della stessa chiesa[93], la chioma dell’albero dell’Arborea, un sorbo (sorbus domestica)[94], volge naturalmente sempre verso l’alto e questo sarebbe stato sufficiente per portare a compimento quel progetto grafico di discendenza parentale immaginato. Difficile, invece, trovare una ragione – che non sia questa proposta – per la forzatura di inusuali fronde spoglie verso il basso di questo che, allo stato degli studi, è la più antica figurazione dell’insegna giudicale arborense, superstite.

Potrebbero essere, queste in esame, le sorelle di Giano, figlie anonime della stessa prima moglie di Mariano, di cui non si conserva altra memoria se non quella che nel 1305, ancora minorenni, sono sotto tutela di Vanni Gualandi[95]. La notizia meriterebbe una verifica e la proposta identificativa avrebbe senso solo se le si considerasse quasi coetanee del fratello, già sposato nel 1287, e almeno in età tardopuberale, come le fanciulle dotate di seno del capitello in quel 1291, salvo ammettere un riadattamento del rilievo con aggiornamento dell’iconografia, in occasione della ristrutturazione dell’abside nel 1336. La loro marginale collocazione è da porre in relazione con la consuetudine che le donne in Sardegna non potessero regnare[96] e perciò confinate in un’area prossima ma comunque esterna a quella privilegiata absidale, riservata al regnante, al donnicello e loro rispettive consorti, presumibilmente al vescovo in carica, alla teofania e al Tetramorfo.

Mariano ii, figura cardine intorno alla quale ruotano i ritratti di Zuri, sedette sul trono di Arborea complessivamente per quasi mezzo secolo, dal 1250 circa al 1264 circa sotto tutela di Guglielmo di Capraia giudice di Arborea per riconoscimento papale; dal 1264 al 1273 come giudice in ‘consorte’ con Nicolò figlio di Guglielmo e in seguito, fino alla sua morte, nel 1297, come giudice unico. Rimasto vedovo sposò in seconde nozze anche lui una Gherardesca, un’anonima figlia di Guelfo della Gherardesca conte dei Donoratico, fratello della nuora Giacomina. Astuto sovrano, godeva di fama di uomo colto, arguto e sottile politico anche oltre Tirreno. Di lui, ricorda Pietro Martini, ne scrive lo storico fiorentino Giovanni Villani in Cronache fiorentine, dalla Torre di Babele al 1336 come «uno dei più possenti cittadini d’Italia tenente a Pisa numerosa corte, e codazzo di cavalieri che seco lui rumoreggiava per quelle vie»[97]. Nel corso di un lungo regno il giudice mecenate portò a compimento importanti opere architettoniche e di riassetto urbanistico della capitale giudicale. Il nome del più effigiato di tutti i giudici di ogni tempo della Sardegna (quattro, forse cinque ritratti), compare, oltre che nelle epigrafi di Zuri e di Dolianova, anche in quelle che a Oristano ricordano la costruzione della Torre e della muraglia della Porta Ponti (1290), della Torre e muraglia di Porta a Mari (1293)[98], abbattuta nel 1907 e, nella Nurra, in quella del Castello di Monteforte, conquistato e restaurato nel 1274[99]. Le iscrizioni delle due porte cittadine, pur nella loro essenzialità, rivelano il carattere di un Mariano credente e con una precisa aspirazione: «q(ui) felix diu [vi]vat et p(ost) obitu(m) i(n) Chr(ist)o q(ui)escat»[100]. Così, col sorriso sulle labbra, come lui e tutta la famiglia si era fatto  ritrarre nei rilievi absidali di Zuri.

Sono dunque queste di Dolianova, Zuri e Siddi le più antichi effigi di sovrani arborensi, sempre riscontrate in chiese romaniche di cui, spesso documentalmente, sono i mecenati. Il fenomeno della rappresentazione del giudice committente trova pari riscontro nel Giudicato di Torres, dove l’attività edilizia régia nei secoli xi e xii fu molto intensa[101]. Nel Capo di Logudoro le figurazioni  dei  primi sovrani, seppure riconducibili a commissioni degli inizi del XII secolo, sono databili al 1250 circa. In quegli anni, regnante Barisone ii, si portava a compimento la decorazione dell’archivolto dell’arcata centrale del porticato della basilica della SS. Trinità di Saccargia (ante 1116 – metà sec. XII).

 

A sx: Costantino I de Lacon-(Gunale) giudice di Torres, a dx: Gonario II de Lacon-(Gunale) giudice di Torres, metà sec. XIII circa, attr. a maestranza di formazione pisano-pistoiese, marmo, bassorilievo, Codrongianus, basilica campestre della SS. Trinità di Saccargia, dettaglio dell’archivolto dell’arcata centrale del porticato.

 

Qui, nel fregio della Caccia al cinghiale, si inseriscono due teste coronate, nelle quali si riconoscono i ritratti dei giudici di Torres Costantino I de Lacon-(Gunale) (ante 1082 – † post 1124 ante 1127)[102] e di suo figlio Gonario II de Lacon-(Gunale) (1110 ca. – † post 1153)[103]. La loro rappresentazione in un contesto di eterno conflitto tra il Bene e il Male è iconologicamente giustificata dell’essere entrambi sostenitori della Chiesa universale nel contrasto al demoniaco, così come lo sono i loro discendenti: Barisone II nel cennato capitello del pilastro presbiteriale nord di Bisarcio, testimone di un episodio salvifico, descritto nel Trionfo di Cristo sul basilisco[104], gli inediti Figli di Barisone ii in prima linea tra mascheroni demoniaci nel capitello già nella bifora destra del portico ancora a  Bisarcio, il Mariano ii di Siddi al fianco del S. Michele che debella Lucifero e il Mariano iv a fronte dell’Agnus Dei che sottomette Lucifero del S. Serafino di Ghilarza, tutti sottostanti ad un arco esplicito richiamo della volta celeste.

Secondo quanto riferito nel Condaghe della solenne consacrazione della chiesa della SS. Trinità di Saccargia[105], Costantino i de Lacon-(Gunale) e la moglie Marcusa de Gunale, a seguito della visione in sogno di Dio e della Vergine Maria, espressero un voto col quale si erano impegnati a costruire un tempio nella vallata di Saccargia, se avessero avuto un figlio o una figlia erede al trono di Torres. Conseguita la grazia, la basilica fu edificata in più fasi: un nucleo originario, identificabile con la cappella absidale sinistra, già eretta nel 1112 quando il monastero di Saccargia fu donato ai camaldolesi, sarebbe stato ampliato e completato in un impianto con transetto triabsidato e un’aula di medie dimensioni entro il primo trentennio del 1100. Una quarantina di anni appresso il nipote Barisone ii avrebbe ultimata la fabbrica nelle forme note, con l’allungamento dell’aula, l’edificazione della torre campanaria e, per ultimo, del portico[106]. È intuitivo che i ritratti del portico siano di Costantino I e del giovane figlio Gonario II, in quegli anni associato al padre nel governo del Giudicato di Torres, ancorché privi di qualsiasi connotazione generazionale, quale la barba, che nei ritratti di Bisarcio distingue Barisone ii dal figlio Costantino II e, a Zuri, Mariano II dal figlio Chiano. La perfetta corrispondenza dei tratti fisionomici dei due volti in esame colloca, infatti, i due sovrani in una dimensione extratemporale, compatibile con lo status esistenziale di Costantino i e di Gonario ii intorno alla metà del XIII secolo. All’epoca della costruzione del portico padre e figlio sono ormai trapassati ma fruitori di una stessa grazia, di cui si volle perpetuare la memoria votiva nella facciata della basilica – è bene ricordarlo – comunque fondata da Costantino e consorte e presumibilmente solo ampliata dal nipote. La rappresentazione di qualsiasi altro giudice, oltre che irrispettosa, avrebbe vanificato il profondo significato di religiosa gratitudine che giustifica l’edificazione del tempio, nel luogo stabilito da Dio e dalla Vergine rivelatisi in sogno a Marcusa.

 

Ex voto di Gonario de Lacon-(Gunale) donnicello di Torres figlio di Costantino I, età tardo romana, rimaneggiata in epoca medioevale, basilica della SS. Trinità di Saccargia, marmo, altorilievo, paramento interno dell’aula, in prossimità del transetto sinistro.

 

Il sapore di un ex voto ha la protome in marmo bianco di un giovinetto, incassata nel paramento interno dell’aula della basilica di Saccargia, in prossimità dell’arco del transetto sinistro, ragionevolmente, in quanto priva di corona, dello stesso Gonario ii donnicello. Non si esclude che possa trattarsi di materiale di spoglio di età tardoromana, derivante da Torres; secondo Fernanda Poli «la lavorazione medievale è comunque patente nella forma della bocca appena socchiusa, di tipo etiope come quelle del grande scultore pisano Biduino»[107]. Lo stesso tratto anatomico si rileva in una seconda figurazione ad altorilievo del capo di Barisone ii de Lacon-(Gunale), che fa coppia con quello, anch’esso inedito, del figlio Costantino II de Lacon-(Gunale) (giudice di Torres dal 1170 ca. – † 1198)[108], nella mensola su cui scaricano gli archi della bifora sinistra del portico di Bisarcio, sotto l’archivolto degli Angeli e Profeti.

 

Barisone II e Costantino II de Lacon-(Gunale) giudici di Torres, ultimo quarto del sec. XII, attr. a maestranza pisana, vulcanite, altorilievo, Ozieri, chiesa campestre di S. Antioco di Bisarcio, mensola di imposta degli archi della bifora sinistra della galilea.

 

Barisone II de Lacon-(Gunale) giudice di Torres, ultimo quarto del sec. XII, attr. a maestranza borgognona, vulcanite, altorilievo, Ozieri, chiesa campestre di S. Antioco di Bisarcio, dettaglio del capitello del pilastro presbiteriale nord.

 

Barisone ha tratti fisionomici meno realistici di quelli della sua stessa effigie del rilievo presbiteriale, ma sufficienti a descrivere un uguale profilo identitario e a stabilire, in quanto rappresentative di uno stesso modello, un confronto tra modo di concepire un ritratto romanico, idealizzato e aulico, e un ritratto più autentico che preannuncia la sconvolgente evoluzione dal romanico al gotico. Il sovrano ha volto ovaloide e in capo una interessante corona a sezione rettangolare, dalla quale emerge frontalmente, con poco slancio e minimo aggetto, una gemma. Seppure poco percepibili per il forte degrado, in questa sono ancora leggibili labili tracce del graffito del profilo stilizzato della torre emblema del Giudicato di Torres, con residua merlatura bifida ghibellina, in aggetto[109]. È la più antica figurazione superstite dello stemma turritano, databile agli anni 1173-90, quando veniva portata a compimento la galilea dell’ex cattedrale bisarchiense[110]. A destra, Costantino è come un giovane dal volto ben levigato e imberbe, cinto di una semplice corona a sezione circolare, simile a quella del Mariano II di Siddi e del Mariano IV del S. Serafino di Ghilarza, per essenzialità accostabile al circulus ferri che anima la Corona Ferrea, forgiata, secondo tradizione, con uno dei chiodi della crocifissione del Cristo e considerata l’immagine stessa del concetto teocratico di «rex gratia Dei»[111].

La corrispondenza dei generi (due maschi e una femmina) e l’originaria pertinenza del capitello alla colonna della bifora destra del portico di S. Antioco[112], inducono all’identificazione, nelle tre figure a mezzobusto tra mostruose entità demoniache, dei ritratti degli altri tre Figli di Barisone ii. Emergono tutte da un giro di palmette allusive alla vittoria e al trionfo sul male, che conferiscono una lieve nota di regalità[113].  La «probabile primogenita» Susanna (post 1153 – †  ante 1186)[114], del cui viso non resta che una labile traccia del perimetro facciale, ha lunghi cappelli, che ricadono anteriormente su di una tunichetta con castigata scollatura sul piccolo seno e maniche più elaborate. Il suo ritratto è tra quelli dei fratelli effigiati anch’essi ad altorilievo, su facce contrapposte del capitello. Ittocorre, documentato nel 1203[115], e Comita[116], giudice di Torres dopo la scomparsa di Costantino tra il 1198 fino alla morte nel 1218, vestono una tunichetta a girocollo e lunghi cappelli con scriminatura centrale, tirati dietro l’orecchio sinistro e cadenti sul destro. Hanno tutti visi quadrangolari con guance paffute e occhi grandi a mandorla con palpebre ben segnate, di cui la superiore appena più estesa, come quelle di Barisone e Costantino.

 

Donnicello Comita de Lacon-(Gunale) di Torres figlio di Barisone ii di Torres, ultimo quarto del sec. XII, attr. a maestranza pisana, vulcanite, altorilievo, lato a del capitello della bifora destra della galilea della chiesa di S. Antioco di Bisarcio, Ozieri, Museo diocesano di Arte sacra.

 

Susanna de Lacon-(Gunale) figlia di Barisone II, lato c del capitello della bifora destra della galilea di S. Antioco di Bisarcio, Ozieri, Museo diocesano di Arte sacra.

 

Ittocorre de Lacon-(Gunale) figlio di Barisone II, lato b del capitello della bifora destra della galilea di S. Antioco di Bisarcio, Ozieri, Museo diocesano di Arte sacra.

 

Nonostante il forte degrado, resta traccia più o meno evidente delle braccia tese che si allacciavano dietro i mascheroni per rimarcare il vincolo familiare ma, soprattutto, per ‘transennare’, ‘fare cerchio’ e allontanare entità negative, rappresentate da demoniaci mascheroni e altre mostruosità ai quattro angoli del manufatto, solo in parte sopravvissute. Si crede che nella quarta faccia del capitello, oggi completamente abrasa, fosse il ritratto di Preziosa de Orrù (doc. 1158-78) moglie di Barisone[117]. L’ipotesi appare più che probabile ove si consideri che il soggetto perduto volgeva ad ovest, a vista sul prospetto di facciata[118], simmetrico e quasi con pari dignità e rilievo architettonico dei ritratti di Barisone e Costantino, ad un livello appena inferiore perché, come i figli, gerarchicamente ‘sotto-messa’ al sovrano[119]. Contrapposto, ad est, nel lato meno in luce, era il ritratto della figlia Susanna, l’ultima, in quanto figlia femmina, dell’intera corte reale, anche questo scalpellato per incassare i cantonetti dei murazzi di occlusione della bifora. Su tutti, nella mensola su cui scaricano i due archi, vigila e protegge, ancora in situ, la protome di un Bue «animale sacrificale per eccellenza, [che] rappresenta Cristo immolato sulla croce»[120]. La sua vittoria sulla morte è rimarcata da una teoria di altre palmette nella ghiera esterna dell’archivolto e nei due archi minori della bifora. Con il rilievo di Costantino ii associato al trono paterno almeno dal 1170 al 1190 poi re fino al 1198 e di Comita ii suo successore, si estende e si chiude nella quarta generazione, la genealogia dei ritratti dei cinque ‘giudici-committenti’ di Torres, avviata a Saccargia. La più lunga, senza soluzione di continuità, di tutta la vicenda giudicale.

 

La vittoria del Verbo di Dio sulla bestia e sul falso profeta, ante XI sec., attr. a maestranze di cultura romano-barbarica, marmo, Olbia, basilica minore di S. Simplicio, facciata, testata anteriore navatella sinistra, sottarco destro.

 

Piace concludere questo itinerario di storia ma anche di tangibili testimonianze di devozione e fede con un rimando al Giudicato di Gallura, sinora esente da esplicite, documentate, figurazioni litiche di un giudice. L’autorità régia in questo caso è solo evocata in tre formelle di marmo, entro le lunette degli archetti (la volta celeste) nella facciata della basilica minore di San Simplicio di Olbia. Nella testata anteriore della navatella sinistra, il sottarco destro ne contiene due: nel primo a sinistra, all’interno di una cornice a rilievo scavata nello spessore stesso della lastra (cm 40 x 30 circa), un antropomorfo in sella ad un cavallo trattiene con la mano sinistra le briglie e con la destra impugna uno scettro che calca un piccolo tino. In alto a sinistra, un secondo antropomorfo, trasversale e di una taglia inferiore, stringe nella destra un grosso dardo estratto da un’anca ormai perduta. Nella sezione ad esso sottostante un quadrupede con corna appena accennate, si erge sugli arti posteriori.

Il bassorilievo è opera dello stesso artefice dei due pilastrini della trifora, lo dichiara la perfetta corrispondenza del volto a cono inverso del cavaliere con la protome del rilievo a metà del fusto del pilastrino polistilo sinistro. Si tratta di un manufatto di spoglio dove, è stato scritto, «la tipica disarticolazione compositiva rimanda direttamente alle scene istoriate nelle fibbie metalliche di produzione mediterranea, per il cui tramite poté aversi una qualche eco dei modi correnti nella figurazione romano-barbarica»[121]. Quel che qui interessa, al di là di una più precisa cronologia del manufatto, è il valore semantico assegnatogli dall’architetto ma anche e soprattutto dal committente giudice di Gallura, nel momento del recupero della formella in facciata. Nel brano in esame si è riconosciuto, per quanto male interpretato[122], un rimando diretto ad un passaggio dell’Apocalisse di S. Giovanni: la Vittoria del Verbo di Dio «il Re dei re e il Signore dei signori»[123], ergo il Giudice dei giudici, sulla bestia e sul falso profeta[124]. Il cavaliere è il Cristo Giudice «Fedele e Veritiero» che monta un «cavallo bianco», «giudica e combatte con giustizia»[125] e incarna quegli stessi ideali nei quali il committente – forse Manfredi de Gallura, (U)baldo i de Gallura, Costantino i della Gherardesca o Torchitorio de Zori succedutisi sul trono tra il 1050 e il 1113, anni della costruzione della fabbrica – si riconosceva. Il quadrupede catturato e stretto da un laccio ad una colonnetta è la bestia che sale dalla terra «con due corna simili a quelle di un agnello»[126]. Lo scettro di ferro che pigia «nel tino il vino dell’ira furiosa di Dio, l’Onnipotente»[127], castiga  e ‘mette da parte’ il falso profeta che precipita, vinto da un dardo, come un demonio zoppo. Dell’originaria campitura di un tono rosso bruno, lo stesso del «mantello intriso di sangue»[128] del Cristo, sopravvivono lacerti al margine superiore e inferiore sinistro, e nel breve spazio mediano tra il piede e il capo dei due antropomorfi.

In rapporto di continuità iconologia con questa, si pone l’attigua formella minore quadrata e l’altra nel sottarco sinistro degli archetti in simmetria, di simili dimensioni (15 x  15 cm circa) e pari  gusto pisano[129]. Nella prima, un quadrato inscritto in un cerchio allude ad un astro ‘pulsante’, un sole raggiante; nella seconda, una rosa di triangoli a fasce concentriche intorno ad un disco centrale richiama lo stesso Cristo/Sole di Giustizia ricordato degli antichi Padri in relazione al ritorno del Signore nel dies irae[130]. Si ribadisce così, per emblemi ed allegorie, uno stesso ideale di giustizia cristiana, a cui il giudice, rex gratia Dei, protendeva e come tale amava proporsi.

Donnicello Comita de Lacon-(Gunale) di Torres figlio di Barisone ii di Torres, ultimo quarto del sec. XII, attr. a maestranza pisana, vulcanite, altorilievo, lato a del capitello della bifora destra della galilea della chiesa di S. Antioco di Bisarcio, Ozieri, Museo diocesano di Arte sacra.

 

Susanna de Lacon-(Gunale) figlia di Barisone II, lato c del capitello della bifora destra della galilea di S. Antioco di Bisarcio, Ozieri, Museo diocesano di Arte sacra.

 

Ittocorre de Lacon-(Gunale) figlio di Barisone II, lato b del capitello della bifora destra della galilea di S. Antioco di Bisarcio, Ozieri, Museo diocesano di Arte sacra.

 

Nonostante il forte degrado, resta traccia più o meno evidente delle braccia tese che si allacciavano dietro i mascheroni per rimarcare il vincolo familiare ma, soprattutto, per ‘transennare’, ‘fare cerchio’ e allontanare entità negative, rappresentate da demoniaci mascheroni e altre mostruosità ai quattro angoli del manufatto, solo in parte sopravvissute. Si crede che nella quarta faccia del capitello, oggi completamente abrasa, fosse il ritratto di Preziosa de Orrù (doc. 1158-78) moglie di Barisone[117]. L’ipotesi appare più che probabile ove si consideri che il soggetto perduto volgeva ad ovest, a vista sul prospetto di facciata[118], simmetrico e quasi con pari dignità e rilievo architettonico dei ritratti di Barisone e Costantino, ad un livello appena inferiore perché, come i figli, gerarchicamente ‘sotto-messa’ al sovrano[119]. Contrapposto, ad est, nel lato meno in luce, era il ritratto della figlia Susanna, l’ultima, in quanto figlia femmina, dell’intera corte reale, anche questo scalpellato per incassare i cantonetti dei murazzi di occlusione della bifora. Su tutti, nella mensola su cui scaricano i due archi, vigila e protegge, ancora in situ, la protome di un Bue «animale sacrificale per eccellenza, [che] rappresenta Cristo immolato sulla croce»[120]. La sua vittoria sulla morte è rimarcata da una teoria di altre palmette nella ghiera esterna dell’archivolto e nei due archi minori della bifora. Con il rilievo di Costantino ii associato al trono paterno almeno dal 1170 al 1190 poi re fino al 1198 e di Comita ii suo successore, si estende e si chiude nella quarta generazione, la genealogia dei ritratti dei cinque ‘giudici-committenti’ di Torres, avviata a Saccargia. La più lunga, senza soluzione di continuità, di tutta la vicenda giudicale.

 

La vittoria del Verbo di Dio sulla bestia e sul falso profeta, ante XI sec., attr. a maestranze di cultura romano-barbarica, marmo, Olbia, basilica minore di S. Simplicio, facciata, testata anteriore navatella sinistra, sottarco destro.

 

Piace concludere questo itinerario di storia ma anche di tangibili testimonianze di devozione e fede con un rimando al Giudicato di Gallura, sinora esente da esplicite, documentate, figurazioni litiche di un giudice. L’autorità régia in questo caso è solo evocata in tre formelle di marmo, entro le lunette degli archetti (la volta celeste) nella facciata della basilica minore di San Simplicio di Olbia. Nella testata anteriore della navatella sinistra, il sottarco destro ne contiene due: nel primo a sinistra, all’interno di una cornice a rilievo scavata nello spessore stesso della lastra (cm 40 x 30 circa), un antropomorfo in sella ad un cavallo trattiene con la mano sinistra le briglie e con la destra impugna uno scettro che calca un piccolo tino. In alto a sinistra, un secondo antropomorfo, trasversale e di una taglia inferiore, stringe nella destra un grosso dardo estratto da un’anca ormai perduta. Nella sezione ad esso sottostante un quadrupede con corna appena accennate, si erge sugli arti posteriori.

Il bassorilievo è opera dello stesso artefice dei due pilastrini della trifora, lo dichiara la perfetta corrispondenza del volto a cono inverso del cavaliere con la protome del rilievo a metà del fusto del pilastrino polistilo sinistro. Si tratta di un manufatto di spoglio dove, è stato scritto, «la tipica disarticolazione compositiva rimanda direttamente alle scene istoriate nelle fibbie metalliche di produzione mediterranea, per il cui tramite poté aversi una qualche eco dei modi correnti nella figurazione romano-barbarica»[121]. Quel che qui interessa, al di là di una più precisa cronologia del manufatto, è il valore semantico assegnatogli dall’architetto ma anche e soprattutto dal committente giudice di Gallura, nel momento del recupero della formella in facciata. Nel brano in esame si è riconosciuto, per quanto male interpretato[122], un rimando diretto ad un passaggio dell’Apocalisse di S. Giovanni: la Vittoria del Verbo di Dio «il Re dei re e il Signore dei signori»[123], ergo il Giudice dei giudici, sulla bestia e sul falso profeta[124]. Il cavaliere è il Cristo Giudice «Fedele e Veritiero» che monta un «cavallo bianco», «giudica e combatte con giustizia»[125] e incarna quegli stessi ideali nei quali il committente – forse Manfredi de Gallura, (U)baldo i de Gallura, Costantino i della Gherardesca o Torchitorio de Zori succedutisi sul trono tra il 1050 e il 1113, anni della costruzione della fabbrica – si riconosceva. Il quadrupede catturato e stretto da un laccio ad una colonnetta è la bestia che sale dalla terra «con due corna simili a quelle di un agnello»[126]. Lo scettro di ferro che pigia «nel tino il vino dell’ira furiosa di Dio, l’Onnipotente»[127], castiga  e ‘mette da parte’ il falso profeta che precipita, vinto da un dardo, come un demonio zoppo. Dell’originaria campitura di un tono rosso bruno, lo stesso del «mantello intriso di sangue»[128] del Cristo, sopravvivono lacerti al margine superiore e inferiore sinistro, e nel breve spazio mediano tra il piede e il capo dei due antropomorfi.

In rapporto di continuità iconologia con questa, si pone l’attigua formella minore quadrata e l’altra nel sottarco sinistro degli archetti in simmetria, di simili dimensioni (15 x  15 cm circa) e pari  gusto pisano[129]. Nella prima, un quadrato inscritto in un cerchio allude ad un astro ‘pulsante’, un sole raggiante; nella seconda, una rosa di triangoli a fasce concentriche intorno ad un disco centrale richiama lo stesso Cristo/Sole di Giustizia ricordato degli antichi Padri in relazione al ritorno del Signore nel dies irae[130]. Si ribadisce così, per emblemi ed allegorie, uno stesso ideale di giustizia cristiana, a cui il giudice, rex gratia Dei, protendeva e come tale amava proporsi.

 

 


 

[69] Sulla valenza esorcistica del pugno chiuso nell’«homo religiosus», si veda lo studio di V. Messori, Pensare la storia. Una lettura cattolica dell’avventura umana, Milano 1992, pp. 534-535. L’iconografia mostra delle corrispondenze anche con la Discesa agli inferi, l’anastasi bizantina, del ciclo di affreschi della SS. Trinità di Saccargia di Codrongianus (seconda metà XII sec.) dove il Cristo col pugno chiuso minaccia gli inferi e pratica la calcatio colli sul Maligno.

[70] M.C. Cannas 1991, p. 224.

[71] La proposta identificativa delle altre figure è di M. Botteri, Guida alle chiese medievali di Sardegna, Sassari 1978, p. 141 e condivisa da R. Coroneo, Chiese romaniche della Sardegna. Itinerari turistico-culturali, Cagliari 2005.

[72] E. Urech, v. “palma”, in Dizionario …, cit., pp. 188-190.

[73] C. Gatto Trocchi, v. “acànto”, in Enciclopedia illustrata dei simboli, Roma 2004, p. 15. «Presente dall’antichità nella decorazione architettonica come simbolo di immortalità; nel cristianesimo [l’acànto] è segno di resurrezione», cfr. C. Muscolino, Il Tempio Malatestiano di Rimini, Ravenna 2000, p. 81.

[74] L.L. Brook, M. Tangheroni (a cura di), v. “Andreotto Saraceno Caldera”, “Saraceno Caldera, Ebriaci”, in Genealogie…, cit., pp. 104-105, tav. XVI; p. 263, XVI, 21.

[75] L.L. Brook, M.M. Costa (a cura di), v. “Mariano ii de Bas-(Serra)”, cit.; L.L. Brook, M. Tangheroni (a cura di), v. “Andreotto Saraceno Caldera”, cit.

[76] L.L. Brook, M.M. Costa (a cura di), v. “Giovanna (de Bas-Serra)”, “Bas-Serra Giudici di Arborea (1)”, cit., pp. 136-137, tav. XXXII; p. 385, XXXII, 12.

[77] Sarcofago della piccola Giovanna de Bas-Serra, figlia del Giudice Chiano di Arborea e di Giacomina della Gherardesca, marmo, 1308, Oristano, episcopio.

[78] Per l’iconografia e la bibliografia dell’immagine sovrana in alcuni sigilli sardi e catalani del XII-XIV secolo, si veda il saggio di M.C. Cannas, “Alcuni aspetti …”, cit., pp. 209-210. Tra le rare testimonianze superstiti della figurazione di una corte regia bizantina in Sardegna nei secc. X-XI, merita attenzione l’ipotesi di Antonio Taramelli (1906) e Alberto Boscolo (1978) ripresa da Roberto Coroneo, che riconosce nel protospataro regio Torchitorio e in sua moglie Nispella accompagnati da musici e almeno un guerriero i personaggi rappresentati a bassorilievo in due frammenti marmorei, provenienti dalla basilica di S. Antioco a Sant’Antioco, cfr. R. Coroneo, “Frammenti scultorei del VI al XI secolo”, in L. Porru, R. Serra, R. Coroneo, “Sull’iconografia di alcune sculture sulcitane altomedievali, in relazione all’epigrafe greca di Sant’Antioco”, in  Archivio Storico Sardo, XXXVI (1989), pp. 91-99, figg. 1-9. Per una bibliografia completa su questi rilievi si rimanda al citato saggio di Coroneo.

[79] J. Hall, v. “cintola”, Dizionario…, cit., p. 104. Non si esclude che la simbologia della cinghia affondi  la sua origine nel versetto del Libro di Isaia XI, 4, quando in riferimento al Messia profetizza: «Fascia dei suoi lombi sarà la giustizia, cintura dei suoi fianchi la fedeltà».

[80] M. Feuillet, v. “acànto”, Lessico dei simboli cristiani, Roma 2006, p. 7.

[81] La prima menzione di Giovanni è del 1287, quando sposò Giacomina. Da questa unione nacque Giovanna. Da una lunga precedente relazione con Vera Cappai ebbe due figli: Andreotto e Mariano. Quest’ultimo gli successe al trono quando Giovanni morì un 23 marzo tra il 1304 e il 1307, a seguito di una sommossa popolare, cfr. L.L. Brook, M.M. Costa (a cura di), v. “Giovanni o Chiano de Bas-(Serra)”, “Bas-Serra Giudici di Arborea (1)”, cit., pp. 136-137, tav. XXXII; pp. 383-384, XXXII, 8.

[82] Alla morte di Chiano, Giacomina sposò in seconde nozze Tedice della Gherardesca conte di Donoratico e rivendicò i diritti  sul Giudicato d’Arborea in quanto erede della figlia Giovanna, nata dal precedente matrimonio e morta nel 1308; ottenne un vano riconoscimento giuridico sul giudicato dall’imperatore Ludovico il Bavaro nel 1329, cfr. L.L. Brook, M. Tangheroni (a cura di), v. “Giacomina della Gherardesca”, “Donoratico della Gherardesca”, pp. 94-95, tav. xi; p. 236, XI,17; pp. 136-137, tav. XXXII; in Genealogie…, cit.

[83] Ivi,  v. “Ugolino della Gherardesca”, pp. 94-95, tav. XI; p. 234-235, XI, 9.

[84] Inferno XXXIII, 67-78.

[85] E. Urech, v. “leone”, in Dizionario …, cit., p. 149.

[86] Libro dell’Apocalisse, v, 5.

[87] Acquasantiera con il Tetramorfo, prima metà del XI secolo, altorilievi in marmo bianco, cm 42, Sarroch, parrocchiale di S. Vittoria.

[88] M.C. Cannas, “Alcuni aspetti …”, cit., pp. 212-213.

[89] «A.C.A., P.A., vol. V, f. 76», cfr. F.C. Casula, “La scoperta dei busti di pietra …”, cit., p. 11 nota 8.

[90] «F.C. Casula, Profilo storico della Sardegna catalano-aragonese. 1° ediz., Cagliari 1982 […]», ivi nota 10.

[91] «Archivio della Corona d’Aragona di Barcellona, Real Audiencia, Processos de Arborea, voll. I-X; F.C. Casula, Cultura e scrittura dell’Arborea al tempo della Carta de Logu, Cagliari 1979, p. 71 e ss.; F.C. Casula, La Sardegna giudicale (secc. X-XV, in aa. vv., Genealogie medioevali di Sardegna, [cit.], pp. 50-51. Per l’iconografia vedi, ad esempio, lo stemma e la campana della torre di Mariano a Oristano e la lapide funeraria di Costanza di Saluzzo riportata anche in R. Carta Raspi, Ugone III d’Arborea e le due ambasciate di Luigi d’Anjou, Cagliari 1936, p. 88», ivi, nota 7.

[92] F.C. Casula, “La scoperta dei busti di pietra ”, cit., p. 11.

[93] «Hanno particolare importanza le rappresentazioni dell’albero deradicato, simbolo dei giudici d’Arborea: ve ne sono due, uno dei quali perfettamente leggibile, sullo stesso concio del lato destro, seconda arcata», terzo filare, cfr. A.L. Sanna, San Pietro di Zuri. Una chiesa…, cit., pp. 8 fig. 1, 48, fig. 2, 49. Un terzo, inedito e spoglio, è graffito nel terzo filare della terza arcata del fianco est.

[94] A.L. Sanna, San Pietro di Zuri. Una chiesa…, cit., p. 12. Lo stemma dell’albero deradicato appartenente alla famiglia catalana dei Cervera, è acquisito come insegna statale dell’Arborea nel 1157 a seguito del matrimonio di Barisone i con Agalbursa figlia di Poncio de Cervera e di Ugo dei Bas fratello di Agalbursa con Ispella de Serra figlia di Barisone. «In catalano cervera, o servera, significa sorbo, albero di sorbe», cfr. L. Fadda, S. Serafino…, cit., p. 79, nota 18.

[95] L.L. Brook, M.M. Costa (a cura di), v. “n n n (de Bas-Serra)”, “Bas-Serra Giudici di Arborea (1)”, cit., pp. 136-137, tav. XXXII; p. 383, XXXII, 7. L.L. Brook, M. Tangheroni (a cura di), v. “Vanni o Giovanni o ‘Vannuccio’ Gualandi-Cortevecchia”, “Gualandi Cortevecchia”, in Genealogie…, cit., p. 256, XI, 13.

[96] A.M. Oliva, “La successione dinastica femminile nei troni giudicali sardi”, in Miscellanea di studi medioevali sardo-catalani, Cagliari 1981.

[97] «Gio. Villani, Stor. fiorent. lib. VII, cap. 45», cfr. G. Manno, Storia di Sardegna, Torino 1835, VIII, pp. 374 nota 2.

[98] T. Casini, “Iscrizioni sarde del Medioevo”, in Archivio storico sardo, I, fasc. 4,1905, p. 309, n. 2, pp. 332, 334-335, nn. 31-34. Per una più completa bibliografia sulle iscrizioni marianiane si rimanda a M.C. Cannas, “Alcuni aspetti …”, cit., p. 219, nota 41.

[99] G. Spiga, “Il Castello di Monteforte nella Nurra attraverso la lettura di un’epigrafe medievale”, in Miscellanea di studi medievali…, cit. L’epigrafe della Porta di S. Cristoforo è conservata a Oristano presso l’Antiquarium Arborense, quella del castello di Monteforte a Sassari nel Museo Nazione ‘G.A. Sanna’.

[100] F. Nissardi, “Una oscura pagina di storia sarda sul Giudicato di Arborea, in relazione ad alcuni monumenti epigrafici”, in Bullettino Bibliografico Sardo, III (1903), p. 72; F. Fois, M.E. Cadeddu, Castelli della Sardegna medioevale, Cinisello Balsamo 1992, p. 115. Nella seconda, assai simile alla prima, Mariano domanda una prece a chiunque leggesse l’epigrafe, cfr. C. Aru, S. Pietro di Zuri, cit., p. 20; T. Casini, “Iscrizioni sarde….”, cit., pp. 334-335.

[101] «Gonario I Comita dava inizio intorno al 1030-40 alla basilica di San Gavino a Porto Torres, ultimata dopo la sua morte dal figlio Barisone I Torchitorio († 1066?); Giorgia, sorella di Gonario, gettava le fondazioni intorno al 1050 della chiesa protoromanica di Santa Maria del Regno di Ardara; Mariano I (not. 1065-82), figlio del giudice Andrea Tanca († ante 1065?), costruiva (o ricostruiva), nella seconda metà del secolo XI, il monastero di San Michele di Plaiano a Sassari e la Santa Maria di Castro a Oschiri (forse restaurò anche il San Michele di Salvenero a Ploaghe); Costantino i († ante 1127) erigeva la basilica di Saccargia consacrata nel 1116, ma ovviamente cominciata almeno un decennio prima, e poco più tardi era nuovamente costretto a mettere nuovamente mano alla chiesa ardarese di cui, per probabili dissesti statici, fu necessario restaurare la navatella destra e ricostruire la facciata», cfr. F. Poli, “La decorazione scultorea del Sant’Antioco di Bisarcio. Nuovi dati per vecchie attribuzioni”, in Sacer, VI(1999), p. 171. Lo stesso Gonario ii di Torres di ritorno da un pellegrinaggio in Terrasanta «incontrò Bernardo di Chiaravalle e a lui chiese l’invio di monaci per una fondazione cistercense nella ricca curtis di Cabu Abbas, dove sorse S. Maria di Corte, cfr. R. Serra, La Sardegna, cit., p. 414.

[102] L.L. Brook, F.C. Casula (a cura di), v. “Costantino i de Lacon-(Gunale)”, “Casate indigene dei giudici di Torres”, in Genealogie …, cit., pp. 82-83, tav. v; pp. 191-192, v, 14.

[103] Ivi, v. “Gonario II de Lacon-(Gunale)”, pp. 82-83, tav. v; p. 195, v, 26. L.L. Brook, F.C. Casula (a cura di), v. “Gonario II de Lacon-(Gunale)”, “Casate indigene dei giudici di Torres (2)”, in Genealogie…, cit., pp. 82-83, tav. v; pp. 84-85, tav. vi; p. 198, vi, 1. Il riconoscimento sarebbe in Gonario I, ove non si accettasse che la linea dinastica dei giudici di Torres inizi con il Gonnario I-Comita, la cui esistenza storica non è in realtà comprovata da nessun documento coevo (cfr. M.G. Sanna, “La cronotassi dei giudici di Torres”, in La civiltà giudicale in Sardegna nei secoli XI-XIII. Fonti e documenti scritti, atti del Convegno nazionale di studi, Sassari, Aula magna dell'Università, 16-17 marzo 2001; Usini, Chiesa di Santa Croce, 18 marzo 2001, a cura dell’Associazione «Condaghe S. Pietro in Silki», Sassari 2002, pp. 97-113). Delle due protomi, solo quella a sinistra, con un’iride ancora piombata, è della seconda metà del XII secolo, l’altra è copia ottocentesca; il rilievo originale è conservato all’interno della basilica. La notizia dell’identificazione dei ritratti giudicali di Saccargia è stata anticipata in G.G. Cau, “Architrave gotico-aragonese…”, cit., pp. 23-24.

[104] G.G. Cau, “Il Santo Stefano barbato ”, cit., pp. 159-178.

[105] P. Tola, Codex diplomaticus Sardiniae, Torino 1861, I, p. 192.

[106] F. Poli, Saccargia. L’abbazia della SS. Trinità, Roma 2008, pp. 16-28.

[107] Ivi, pp. 71-72.

[108] L.L. Brook, F.C. Casula (a cura di), v. “Costantino II de Lacon-(Gunale)”, “Casate indigene dei giudici di Torres”, in Genealogie…, cit., pp. 84-85, tav. VI; p. 200, VI, 6; M.G. Sanna, La cronotassi dei giudici di Torres, cit., pp. 97-113.

[109] Il disegno della torre riecheggia quello più tardo dello scudo retto dall’angelo della mensola dell’arco del portale gotico-aragonese sud-est (XV sec.), della basilica di San Gavino a Porto Torres, con quattro merli bifidi, ghibellini.

[110] R. Serra, La Sardegna, cit., p. 268; G.G.  Cau, “Il Santo Stefano barbato ”, cit., p. 178.

[111] Lo stesso titolo fu adottato, per primo tra i giudici di Torres, dal nonno di Barisone II, Costantino I, proprio nell’atto con il quale riconfermava alla cattedrale bisarchiense i suoi possedimenti, stante la perdita della copia originale, in un incendio dell’archivio episcopale, cfr. P. Tola (a cura di), Codex diplomaticus Sardiniae, I, Torino 1861, pp. 183-184, n. IX.

[112] A causa del deterioramento, il capitello fu ritirato in occasione dei lavori di restauro del 1958 e solo di recente esposto presso il Museo diocesano di Arte sacra di Ozieri.

[113] E. Urech, v.  “palma”, in Dizionario …, cit.,  pp. 188-190.

[114] L.L. Brook, F.C. Casula (a cura di), v. “Susanna (de Lacon-Gunale)”, “Casate indigene dei giudici di Torres”, cit., pp. 84-85, tav. VI; p. 200, VI, 7.

[115] Ivi, v. “Ittocorre (de Lacon-Gunale)”, pp. 84-85, tav. VI; pp. 200-201, VI, 8.

[116] Ivi, v. “Comita (de Lacon-Gunale)”, pp. 84-85, tav. VI; p. 201, VI, 9.

[117] Ivi, v. “Barisone II de Lacon-(Gunale)”, pp. 84-85, tav. VI; p. 199, VI, 2.

[118] L’immagine con il capitello in situ è pubblicata in R. Delogu, L’architettura…, cit., tav. CXXXVII.

[119] Ulteriore riscontro della consueta rappresentazione di altri reali, fino alla seconda e terza generazione, si ha nel S. Pietro di Zuri con le Figlie di Mariano II  nella semicolonna del presbiterio e nel S. Gavino di Monreale, dove oltre ai già ricordati Ugone III ed Eleonora sono, su lesena del retro della finestra gotica dell’abside, i ritratti di Eleonora  con i figli Federico e Mariano, cfr. F.C. Casula, “La scoperta dei busti in pietra ”, cit., p. 16.

[120] M. Feuillet, v. “bue”, Lessico…, cit., p. 22.

[121] R. Coroneo – R. Serra, Patrimonio Artistico Italiano. Sardegna preromanica e romanica, S. Egidio alla Vibrata 2004, p. 117.

[122] L. Agus,Un bassorilievo del VII secolo nella facciata della basilica minore di San Simplicio ad Olbia”, ISSN 1127-4883 in BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, dvii/2008, http://www.bta.it/txt/a0/05/bta00507.html

[123] Apocalisse, XIX, 16

[124] Ivi, XIX, 11-21.

[125] Ivi, XIX, 11.

[126] Ivi, XIX, 11.

[127] Ivi, XIX, 15.

[128] Ivi, XIX, 13

[129] R. Coroneo – R. Serra, Patrimonio …, cit., p. 117.

[130] Malachia IV, 1-2; Isaia XXX, 26 e LXII, 1; Sapienza V, 6.

 

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