Premio OzieriPremio Ozieri di Letteratura Sarda 

di Gian Gabriele Cau

 

L'articolo è stato pubblicato su «Voce del Logudoro»,

Ozieri, 17 gennaio 2010, p. 5 (I parte); 24 gennaio 2010, p. 5 (II parte)

 

Una scritta enigmatica e per certi versi bizzarra, scolpita su di un blocco tufaceo (cm 110 x 45 circa) oggi ad uso di architrave d’ingresso di un’abitazione privata, al numero 12 di via Cairoli ad Ozieri, incuriosiva e infastidiva nel contempo per la difficoltà di scioglierla in una interpretazione coerente, dal senso compiuto e storicamente sostenibile. Per uno strano gioco del destino, o meglio per un singolare disegno della Provvidenza, l’illuminazione e la piena consapevolezza giunge proprio alla vigilia della festa di S. Lucia, invocata per sanare la cecità degli occhi e affatto estranea alla genesi di quel concio.

L’architrave allo stato attuale mostra uno specchio epigrafico (cm 93 x 24 circa) con una croce di consacrazione a bracci patenti, incassata in un tondo decentrato sulla sinistra, che dichiara l’appartenenza ad un edificio di culto, verosimilmente alla primitiva fabbrica di Santa Lucia, a non più di cento metri a valle di via Cairoli. L’asimmetria della croce denuncia una larghezza del monolite superiore a quella residua; spezzata al margine sinistro, la trave di spoglio sarebbe stata reimpiegata ai primissimi del Novecento per uno stesso uso nell’abitazione privata.

 

 

 

Nella sezione sottostante la croce è scolpita un’epigrafe in lingua latina di diciasette lettere, di cui quattro strette in un nesso e talune sovrastate da due segni di abbreviazione ‘a omega’. Sulla sinistra della croce un primo gruppo rappresenta una p fusa in nesso a una r, a cui fa seguito una f connessa ad una t. Nella fattispecie l’abbreviatura per contrazione impura sottintende un «perfecit», terza persona singolare del perfetto (passato remoto) del verbo «perficere», «portare a compimento, terminare». In un secondo gruppo sono una d, una a, una v (con valore epigrafico di una u) e il tratto inferiore di una s (in controparte, per una scelta obbligata dello scalpellino che aveva ‘sforato’ sul preesistente tondo della croce), nel quale si ravvisa l’abbreviatura per contrazione impura del nominativo di «Donatus», soggetto dell’azione. Seguono sulla destra una p e una s, che sottintendono un eguale segno grafico di abbreviazione, che attribuiscono a Donato il titolo di «episcopus» e, ancora, una a sigla semplice di «augustinianus». Chiude l’iscrizione – così come è stata nella stesura originale – una t tagliata a metà del corpo da un convenzionale trattino orizzontale, per l’avverbio «tum», «in quel periodo, in quel tempo». Così sciolte tutte le abbreviature, si è autorizzati a trascrivere l’epigrafe in «p[e]rf[eci]t   d[on]a[t]vs   [e]p[i]s[copus]   a[ugustinianus]   t[um]», da tradursi: «portò a compimento Donato vescovo agostiniano in quel tempo», nel quale si ha ragione di riconoscere il presule di Bisarcio, già vescovo dell’antica Diocesi greca di Naupactus (Lepanto), chiamato alla nuova sede episcopale nel 1371, a seguito del trasferimento di Corrado baccelliere in teologia e arcidiacono di Agrigento alla Diocesi di Milevi (Nordafrica)  (R. Turtas, 1999).

Il nuovo proprietario del manufatto, ignaro del significato dell’iscrizione ma affascinato da quei graffiti, fraintese le ultime quattro lettere, p s a t, quale incipit di un antichissimo proverbio, già censito dall’inglese Giovanni Florio in Giardino di Ricreatione raccolta di seimila proverbi e riboboli italiani, pubblicata a Londra nel 1591, e risolse in un fuorviante p[en]sa e poi fa’. Corresse la t in una e ed imitò per quanto potè la grafia ma con una incisione non altrettanto profonda, che ne rivela il carattere posticcio. In un secondo tempo, scemata l’affezione, coprì l’architrave di una densa malta, fin tanto che qualche anno fa tra i calcinacci è riapparsa l’antica iscrizione, ormai slegata dal contesto originale, fuori dai percorsi della memoria storica e per questo di non facile lettura. Il rimaneggiamento rimanda a quello operato su di un’altra epigrafe, con sei lettere in triplo nesso, nell’architrave d’ingresso di un’abitazione in via Alessandro Volta n. 15. In questo caso le due abbreviature per contrazione impura «a v t» e «m a e», sciolte nel benedicente e probabile «av[gura]t   ma[gnoper]e», «(il padrone di casa) augura generosamente», sono sottoscritte da una locuzione posticcia, in lingua italiana «pensa di te  poi di me dirai», che sottintende un «non dir di me se di me non sai», premessa di una sentenza già documentata nella sua integrità in facciata di un’abitazione del 1770 a Vicosoprano, nel Cantone dei Grigioni (T.W.M. Lund, 1910).

Donato è chiamato ad amministrare la Diocesi di Bisarcio negli stessi anni che segnarono la fine dell’esilio del papa ad Avignone (1379) e l’inizio dello Scisma d’Occidente (1378-1417) che vide due serie di papi, due amministrazioni cultuali, due collegi cardinalizi in contrasto tra loro per quarant’anni (F.Amadu, 1963). L’ordine degli Eremitani di Sant’Agostino all’epoca aveva poco più di un secolo di vita. Era stato voluto da papa Innocenzo  IV che il 16 dicembre 1243 promulgò la bolla Incumbit nobis, con la quale invitava le comunità di eremiti della Tuscia a riunirsi per costituire un unico ordine religioso, secondo la regola di Sant'Agostino.

Con la nomina di Donato si apre, a seguito del Grande Scisma, uno dei periodi più travagliati della storia bisarcense, al punto che è dubbio anche il nome del suo successore: secondo Francesco Vico un tal Raimondo in carica nel 1385, per altri un certo Antonio. E’ indiscusso, invece, che nel 1386 papa Urbano iv – il 1371 e massimo il 1386 (ma forse anche prima) – necessariamente deve essere fissata la cronologia della chiesa trecentesca di Santa Lucia e della sua epigrafe consacratoria, la sola iscrizione superstite che rechi il nome di un vescovo di Bisarcio, dopo quella apposta nel 1164 da Giovanni Thelle sulla parete esterna dell’abside della Cattedrale di Sant’Antioco. designa vescovo Antioco. Tra questi due termini certi

 

– il 1371 e massimo il 1386 (ma forse anche prima) – necessariamente deve essere fissata la cronologia della chiesa trecentesca di Santa Lucia e della sua epigrafe consacratoria, la sola iscrizione superstite che rechi il nome di un vescovo di Bisarcio, dopo quella apposta nel 1164 da Giovanni Thelle sulla parete esterna dell’abside della Cattedrale di Sant’Antioco.

 

 

 

La nuova chiesa di S. Lucia senza la torre campanaria (1899) e il campaniletto a vela della chiesa trecentesca

Altro merito la storia non rende a Donato che questo di committente della chiesa tardomedioevale, le cui più antiche notizie erano in alcune note del Liber octavus  dell’Archivio capitolare della Cattedrale di Ozieri, per la localizzazione nel 1592 di due abitazioni in prossimità «de santa Lughia», sulle quali si andava a costituire un censo in favore dei Divini Uffici (S. Becciu, 2000). In questa stabilirono la loro sede il Gremio delle Maestranze e la Società dei Calzolai, che in S. Lucia ebbe la loro patrona. Per L’Angius, che scrive intorno al 1830-50, la chiesa «è molto frequentata nei dì festivi» e, forse in ragione di un culto ancora sentito, nel 1847 si convenne sulla necessità di una sua ristrutturazione, fin tanto che Maria Lucia Secchi, con un consistente lascito testamentario, nel 1860 dispose la costruzione ex novo di un altro tempio, sotto lo stesso titolo (M. Calaresu, 2004).

La piccola chiesa trecentesca (12 x 6,5 metri circa) insisteva in vicolo S. Lucia, tra una modesta sagrestia, adiacente nel lato nord, e un giardinetto sul retro in via La Marmora, all’incirca sull’area dell’odierno salone parrocchiale. Dal riscontro di un rilievo topografico (oggi presso l’Archivio Comunale di Ozieri), effettuato intorno al 1875 in previsione dell’apertura della nuova fabbrica, si apprende che l’antico prospetto orientale divergeva a meridione rispetto all’asse della nuova fabbrica. Per dare più respiro alla chiesa maggiore, in piena sintonia con lo spirito dell’epoca che aveva imposta la rettifica delle principali strade urbane, fu fatto arretrare il muro prospiciente fino al perfetto allineamento parallelo con quello del nuovo tempio. Potrebbe essere questo il momento (post 1898) della rimozione dell’architrave, dopo la traslazione del superstite simulacro ligneo, seicentesco della Santa (M. Calaresu, 2004), per il cui maggiore godimento sarebbe auspicabile l’esposizione nel Museo Diocesano di arte sacra.

In una vecchia fotografia del 1898 di Ercole Conti (archivio dell’autore) si intravede ancora il campaniletto a vela dell’antica S. Lucia, mentre la nuova campana è già allogata sotto una tettoia di una struttura lignea provvisoria, in quell’area dove era stato appena impostato il primo modulo dell’odierna torre campanaria (1900). All’interno della chiesa neoclassica, informata allo stile del Palladio dall’ingegnere Carlo Martinetto, una nuova lapide marmorea già consegnava alla storia la notizia di un’altra consacrazione avvenuta il  12 maggio 1895, ad opera di monsignor Filippo Bacciu, ancora un vescovo della Diocesi di Bisarcio.

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